1-2018 Preti per l’oggi: quale seminario?

Editoriale


Questo primo numero del 2018 segna, per molti versi, un “nuovo inizio”. Ricominciamo il nostro servizio con un tema che ci è sembrato attuale ed importante: i seminari, proponendoci di riflettere sulla vocazione e la formazione al presbiterato e di metterci in ascolto di esperienze diversificate sul territorio italiano per condividere e scorgere vie alternative che possano preludere a una nuova concezione del tempo “seminariale”, che aiuti a formare uomini che seguendo le esigenze del Vangelo gratuitamente facciano della vita un dono e un servizio.
Ricominciamo anche con un nuovo editorialista: padre Fabrizio Valletti, gesuita, nostro membro di Redazione, raccoglie il testimone del confratello padre Felice Scalia. Padre Fabrizio, dopo aver lavorato in molte comunità in Italia, dal 2001 al 2016 è stato attivo animatore nella periferia di Napoli, nel quartiere Scampia. Dal 2016 è Responsabile della Comunità dei Gesuiti dell’Istituto Pontano di Napoli. Lo ringraziamo fin d’ora per la disponibilità a mettere la sua competenza e sensibilità a servizio del piccolo progetto di formazione che Presbyteri intende realizzare.

Imparare ad essere segno di una “presenza” 

Nello scorrere i contributi dei nostri collaboratori per il numero della rivista dedicato al problematico tema dei seminari si avverte un contrastante atteggiamento. Anche in riferimento alle norme aggiornate per la conduzione della formazione dei seminaristi, sono diversi i motivi di positiva progettualità, come d’altra parte gli interrogativi per una insufficiente apertura ai processi di cambiamento caratteristici dell’epoca in cui viviamo.
Dalla necessità di un continuo adeguamento alle mutate realtà sociali e culturali da cui provengono i candidati alla formazione, viene sottolineata l’urgenza di una lettura del contesto e nello stesso tempo l’importanza di avvalorare criteri aggiornati e pertinenti.
Di fatto è sperimentata la varietà di procedure dovuta al numero dei seminaristi, alla loro età, alla responsabilità formativa condivisa da più di una diocesi o di una famiglia religiosa.
Si distingue in modo evidente la scelta dei vescovi o dei superiori religiosi che affidano la formazione alle strutture regionali, che hanno sede presso facoltà teologiche, da quella di mantenere i seminaristi nell’ambito della propria diocesi o famiglia religiosa, servendosi di formatori e docenti che sono presenti nello stesso territorio. Motivi favorevoli e perplessità giustificate si intrecciano a tale proposito e rendono anche evidente che, a differenza della libertà che vivono normalmente gli studenti laici nello scegliere la sede universitaria e il proprio piano formativo, i seminaristi sono in qualche modo dipendenti da motivazioni che non sono in grado di affrontare in autonomia e spesso di elaborare anche in rapporto alla pregressa esperienza di studi o di professionalità.
Forse, proprio questa originaria dipendenza da una autorità ecclesiastica riconosciuta come depositaria di una responsabilità secolare, fa sì che nel corso della formazione non sia valorizzato ciò che potrebbe essere il contributo personale di un candidato al presbiterato.
Viene di fatto data per scontata una separazione vissuta nei seminari da quegli ambienti che sono altrettanto formativi e che appartengono all’ambito laicale, come le università, i centri culturali nel territorio, le strutture sociali e culturali anche legate alle amministrazioni pubbliche.
Da che cosa può dipendere una pratica così diffusa e riconosciuta come necessaria?
È uno dei motivi della perplessità che spesso si avverte di fronte a chi esce da un percorso di formazione, strutturato all’interno di una istituzione che si delinea a sé stante rispetto alla più ampia dimensione della Chiesa come popolo di Dio, fino ad essere considerato in modo negativo troppo “clericale”.
È dato per scontato che l’Ordine sacro, riconosciuto come sacramento nei suoi tre livelli di diaconato, presbiterato ed episcopato, sia conferito dalla stessa autorità ecclesiastica e, in quanto sacramento, goda di una effusione dello Spirito, di cui depositaria è la stessa trasmissione apostolica.
Ci si domanda d’altronde: dove nasce quella che normalmente viene chiamata “vocazione”, che suggerisce a un cristiano di intraprendere un cammino particolare come quello del diaconato o del presbiterato?
Nella maggioranza dei casi l’ispirazione a seguire una via di servizio pieno nella Chiesa nasce proprio all’interno di esperienze pastorali che coinvolgono lo spirito di un laico, sia ragazzo sia adulto, in un incontro personale e profondo con la persona stessa di Gesù.
Prima ancora di entrare nella prospettiva di una totale dedizione ad un servizio ecclesiastico, è interessante verificare se come cristiano si viva un rapporto maturo riguardo a tutte le varie esperienze che umanamente si affrontano nella vita quotidiana. A partire dalla vita in famiglia, è importante che se ne colgano tutte le implicazioni. I legami affettivi da coltivare, le relazioni spesso difficili da conciliare, le responsabilità verso ogni membro, dai più piccoli ai più anziani.
I legami per esempio con la famiglia di origine, soprattutto per il clero diocesano, spesso permangono e possono essere motivo di ricchezza umana come rischio di un attaccamento a interessi estranei all’impegno apostolico.
In tal senso, la scelta di un ministero che richiama al dedicarsi, oltre i confini degli affetti familiari, a persone di tanta diversa origine, cultura e condizione sociale, richiede una disponibilità e una flessibilità che vanno formate ed orientate.
C’è inoltre una più ampia considerazione da approfondire per cogliere quella che si può definire l’identità del presbitero in rapporto al comune laico battezzato.
La “laicità”, espressione comune del popolo di Dio, è il presupposto irrinunciabile che non può essere accantonato anche in una esperienza di servizio presbiterale, perché depositario di tutta la serie di legami con il reale che accompagnano la vita di chiunque.
È dal “popolo di Dio” che nascono i vari ministeri ed è proprio il popolo di Dio che rimane depositario anche di una chiamata che si propone di differenziarsi nei vari carismi non come separazione ma come particolare missione.
La dimensione del clero come corpo sociale ed ecclesiale ha assunto nella storia un carattere sacrale che non ha contribuito a far crescere nel popolo di Dio la missione sacerdotale comune a tutti i battezzati. Una vera laicità comprende anche la missione sacerdotale dei comuni battezzati e lo specifico di chi riceve l’Ordine sacro non può significare quasi una separazione ontologica dal corpo onnicomprensivo della Chiesa.
È proprio a partire dal seminario che il candidato in formazione è nella condizione di vivere l’appartenenza al clero mantenendo le radici con la “laicità” del popolo di Dio. Al contrario si può cadere nelle varie espressioni di clericalismo che nel tempo attuale viene considerato motivo serio di allontanamento dalla Chiesa soprattutto da parte di molti laici giovani e adulti.
Vien da pensare che un eccesso di struttura religiosa, nelle caratteristiche culturali di linguaggio, di riferimenti rituali, di presenza di edifici e di simbologie sacrali, spesso producono una sorte di soffocamento dell’esperienza profonda di fede più legata alla libertà delle coscienze.
La stessa formazione del seminarista può essere concepita ideale quando predispone il futuro presbitero ad entrare in un sistema ben organico, nelle sue forme e nella sua cultura, che sia separato dalle regole e dalle consuetudini ritenute mondane. Sia l’asse culturale su cui debba ruotare il suo pensiero e il suo sentire, sia lo sviluppo della sua spiritualità, raggiungerebbero il più sicuro svolgimento in una specie di contrapposizione a quei valori che il mondo esprime. È vero che chi si consacra al servizio del Signore non si deve adeguare al clima del mondo perché sia autentico l’annuncio del Regno, ma è anche necessario che la missione apostolica sia svolta nel mondo. È allora forse urgente che si esca dal recinto di una visione religiosa ecclesiocentrica per essere portatori di una Buona Notizia in un mondo che non conosce il valore più profondo dell’amore che lo Spirito del Risorto ancora può offrire alla coscienza dell’umanità contemporanea.
Gli stessi luoghi di formazione risentono spesso di uno stile architettonico e conseguentemente di vita che, come molti edifici ecclesiastici, mostrano diversità e separazione dalle comuni abitazioni della gente. A parte quelle esperienze che vedono piccoli gruppi di seminaristi vivere il contesto semplice e di stile familiare, ci si può imbattere in realtà che richiamano il clima “collegiale”. Peggio ancora quando prevale l’essere serviti di tutto punto, come se si abitasse in un albergo e per di più confortevole. Come si può coltivare una sensibilità che sia pronta ad avvicinare i poveri, ad “abitare” in mezzo a loro, a coglierne la sofferenza per mettersi lealmente al loro servizio?
Penso che non possa bastare il dedicare un tempo settimanale magari al servizio di una mensa o l’offerta di collaborazione ad una parrocchia della periferia.
Quando qualche vescovo ha suggerito alla nostra comunità di Scampia di accogliere un seminarista per un periodo di formazione, con sincerità posso dire che si sia ottenuto un insperato risultato. Vivere in un condominio, condividere l’ascensore con le famiglie di un palazzo popolare, cucinare e lavare i piatti insieme, saper trovare il tempo del silenzio e lo spazio necessario di solitudine… tutti elementi che trasformano una personalità e fanno sì che maturi nel carattere e nella capacità di relazione.
Se il fine più alto del presbitero è quello di essere “segno” di un servizio per il popolo, nello spezzare il Pane di Vita e nell’aprire le coscienze alla Parola, meno simbologia religiosa si vive e più vita dello Spirito è importante sperimentare.
Viene costante il ricordo di quando il catechismo ci suggeriva di pensare i sacramenti come “segni visibili di un Dio invisibile”…
In definitiva è preziosa ogni esperienza che possa far maturare in una personalità il sentirsi segno di una “presenza” che è stata donata e che non deve essere rielaborata con paradigmi o strutture prese in prestito da altre condizioni di vita. 
Ogni segno ha bisogno di essere significato, ma la trasmissione della ricchezza dello Spirito ha modalità sue proprie.
È necessario che anche la spiritualità debba essere mediata con un processo di inculturazione necessario perché possa essere recepita, ma prioritaria è la comunicazione e la condivisione di una esperienza rispetto ad ogni altra trasmissione anche verbale.
Insieme alla necessaria formazione teologica che deve avere il suo ordinamento rigoroso e sempre aggiornato rispetto a quanto sia il Magistero, sia l’esperienza pastorale suggeriscono, diventa sempre più necessaria la formazione al discernimento spirituale.
È un’esperienza che non si improvvisa e che accompagna la vita del seminarista nel corso della sua formazione, integrata in tutti i momenti che lui vive. Non è solo nella preghiera che matura una coscienza che cerca l’unione con lo Spirito del Signore e desidera incontrarlo intimamente. Lo studio, le esperienze di servizio pastorale, la frequentazione dei propri familiari e delle persone che ha modo di incontrare, sono tutte occasioni che suggeriscono quella interiore ricerca di “consolazione” che può essere la traccia da seguire nel cammino della sua maturità spirituale.
Quando la formazione riguarda i componenti di una famiglia religiosa, ancora più elementi sono da inserire nella crescita di una personalità capace di vivere in povertà, in piena disponibilità ad una missione che l’obbedienza propone.
L’affettività rimane elemento costitutivo della personalità e il discernimento nelle occasioni di incontro e di relazione con gli altri può essere il costante criterio per una libertà che possa realizzare fecondo scambio di doni ricchi di umanità.
Libertà da legami possessivi ed esclusivi, apprezzamento del valore dell’amicizia, vicinanza alla ricchezza che la femminilità può offrire… sono obiettivi da raggiungere ma anche esperienze da vivere.
Di certo è un cammino personale che può essere aiutato da un accompagnatore spirituale, nei momenti di preghiera e di meditazione personale altrettanto importante rispetto alla preghiera liturgica. L’esperienza dice che il prevalere degli appuntamenti liturgici che scandiscono la giornata del seminario può creare quel clima di soddisfazione religiosa che significherebbe in seguito una prevalente attenzione nella prassi pastorale alle celebrazioni… e minore cura dell’incontro delle persone nel loro vivere quotidiano con la forza dello Spirito. È una osservazione ricorrente quella che attribuisce ai preti ordinati negli ultimi anni un eccesso di preoccupazione a tutte le forme di celebrazione, compresi i paramenti e gli arredi.

Altro criterio che può favorire un’esperienza di discernimento spirituale è il superamento di una tendenza all’individualismo, spesso caratteristico in chi deve esercitare un ruolo di cui assume personale responsabilità, necessario proprio per un presbitero.
La vita di comunità che offre il seminario è una preziosa esperienza, nella ricchezza di tante opportunità. I modi in cui viene vissuta sono vari e tutti interessanti. Il gruppo classe, la verticalità di presenza, necessaria nei piccoli gruppi, lo studiare insieme, i momenti di convivialità e di ricreazione, le occasioni di gioco… sono come un tessuto che rimane vivo anche quando nella dispersione del servizio in località spesso distanti sono ridotte le occasioni di incontro.
Interessante è quando vengono vissuti momenti di viaggio o quando con lo stesso vescovo o superiore religioso si fanno vacanze comunitarie o incontri per ricorrenze significative.
Sono sempre più frequenti le esperienze di convivenza di più preti che, pur appartenenti a parrocchie distinte, formano unità pastorali e vita comunitaria.
Ritorna il riferimento alla spiritualità fondata sul discernimento… quando è possibile viverlo comunitariamente, il vantaggio per la serenità personale e per una pastorale condivisa è più che evidente.
La chiesa in “uscita”, così indicata dal vescovo di Roma Francesco e anche sottolineata dalla Chiesa italiana nel recente convegno ecclesiale di Firenze, sempre più è obiettivo sentito da molti preti e soprattutto da quei laici che non si sentono più solo invitati a collaborare, ma che nello spirito della “cooperazione ecclesiale”, si sentono investiti della necessità di essere protagonisti e responsabili. Il loro ruolo, come uomini e donne ricchi della grazia battesimale, non può essere subalterno, ma sempre più investito di quel carisma di servizio nella carità, così importante nel vivere un mondo secolarizzato.
Un capitolo a parte è quello che deve portare i preti a farsi corpo con il laicato e nella formazione è una tappa importante e necessaria.
Forse la presenza di figure laiche nella stessa formazione dei seminaristi potrebbe servire per assicurare loro una disponibilità a non sentirsi “diversi” in una società plurale, dove le leggi del mercato, delle varie professioni, dell’amministrazione pubblica, delle strutture economiche e culturali sembrano una giungla in cui è difficile inoltrarsi o addirittura da cui difendersi.
È indispensabile educarsi a vivere il territorio con il respiro di chi sa individuare le ragioni di crisi, di violenza, di ingiustizia, come pure le risorse di bene, di sviluppo e di solidarietà.
Molte esperienze di Chiesa intrecciano proposte esplicite di vita religiosa, con necessarie offerte di servizi, nel sociale e nel culturale, per sollevare la condizione di vita e di dignità di persone spesso afflitte da condizioni di povertà materiale, culturale e spirituale. In molte periferie, come d’altronde in terra di missione, non è solo in supplenza rispetto all’insufficiente servizio pubblico che si promuovono iniziative di promozione culturale o di sviluppo sociale.
Sempre più una evangelizzazione che promuova la crescita integrale delle persone o di una comunità locale, può intrecciare la proposta di fede con un’azione che tenga conto anche della cultura e della giustizia.
Nella formazione dei seminaristi è proprio l’immersione nelle varie componenti vive in un territorio che può suscitare una propensione a sperimentare forme di evangelizzazione a tutto campo e comprensive non solo di chi frequenta la Chiesa, ma di una intera popolazione. Chissà che una Chiesa che parta proprio dalla realtà più sofferente dei poveri, dei senza dignità, dei più emarginati, possa attirare coloro che si sono allontanati o quelli che sono alla ricerca di verità. Gesù in effetti ha privilegiato proprio i più sofferenti con un incontro che donava loro una salvezza a tutto campo.

FABRIZIO VALLETTI SJ