AFFIDATI ALLA PAROLA
Carissimi lettori,
bentrovati in questo nuovo anno! Un saluto particolare ai nuovi abbonati, che ringraziamo per la fiducia, e a chi ci segue già da tanti anni, a cui va il grazie per la fedeltà e l’interesse con cui segue la nostra Rivista. Anche in questo 2021 desideriamo poter contribuire alla formazione permanente dei presbiteri in Italia, e speriamo di poter essere un elemento di stimolo e di speranza.
Non potevamo che iniziare con un deciso, rinnovato affidamento alla Parola di Dio, come fonte della fede e luce per la vita, nella convinzione che si tratta di una priorità per tutta la comunità cristiana, a partire dal prete. Lo abbiamo avvertito nel difficile anno trascorso e desideriamo sia un nuovo punto di partenza per il futuro che ci attende e che desideriamo costruire.
Ringraziamo don Nico Dal Molin che anche quest’anno ci accompagnerà con l’editoriale e i tre articolisti che affrontano nei contributi principali il tema monografico. Il biblista Dionisio Candido ci parla dell’ascolto della Scrittura, nei suoi presupposti, ostacoli e dinamiche; don Pascual Chávez offre una riflessione sulla centralità che deve occupare la Parola di Dio nella vita del prete; Assunta Steccanella ci parla dei cambiamenti avvenuti a causa della pandemia e sottolinea come il rapporto con le Scritture sia l’anima di ogni agire pastorale. Gli spunti di meditazione anche quest’anno sono offerti dai vari membri di Redazione; su questo numero scrive padre Carlo Manunza, biblista.
Con il nuovo anno inauguriamo anche le nostre due rubriche. La prima è chiamata Gesti di condivisione, intende dare voce alle diversificate situazioni di povertà e bisogno che ci sono nel territorio italiano attraverso alcune narrazioni di esperienze in atto nella nostra Chiesa e sarà in collaborazione con alcune Riviste Diocesane che si sono rese disponibili. Su questo numero offriamo una riflessione introduttiva sul tema, a cura di Alessandro Martinelli. La seconda rubrica (Presbiteri digit@li) sarà un percorso concreto, esperienziale, sull’impatto delle dinamiche digitali nella vita del prete, curato da don Giacomo Ruggeri. Le pagine UAC sono di don Giuseppe Costantino Zito.
Grazie ancora, buona lettura e buon anno 2021!
La Redazione
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o i singoli articoli:
Come casa sulla roccia. Il credente e la Sacra Scrittura (Dionisio CANDIDO)
Diversi sono gli ambiti in cui ascoltare il Dio biblico: la natura, le opere d’arte, l’essere umano, il Cristo, la Sacra Scrittura. Ma non mancano ostacoli ad un buon ascolto: l’incapacità del silenzio interiore, l’approssimazione e la presenza parziale dei testi biblici nella liturgia. Una fede basata sulla Scrittura sa evolversi continuamente, tradurre in vita l’insegnamento di Gesù e dialogare con discernimento con la cultura del proprio tempo.
Non per mestiere, ma per la vita (Pascual CHÁVEZ)
Non per mestiere, ma per la vita è una riflessione sulla centralità che deve occupare la Parola di Dio nella vita del prete che, travolto dalla molteplicità di impegni che caratterizzano in genere le sue giornate, corre il rischio di una concezione puramente funzionale della Parola. Il tema offre quindi quelli elementi (atteggiamenti giusti, dimensioni e frutti) cha fanno vedere la bellezza e l’importanza della Parola, e ne trasformano il prete in un uditore attento e fecondo, come Maria
La luce della Parola nel buio della pandemia (Assunta STECCANELLA)
L’articolo si apre considerando il contesto attuale, con il disorientamento per i molti problemi e cambiamenti che si sono innescati a causa della pandemia, ma anche con la sorpresa nel cogliere possibilità nuove per l’evangelizzazione. In un secondo passaggio propone di sostare sul tema dell’ascolto di Dio e dell’uomo, atteggiamento indispensabile per individuare le vie da percorrere, e in questo quadro sottolinea come il rapporto con le Scritture sia l’anima di ogni agire pastorale: occorre trovare modi per dare loro cittadinanza anche nella frenesia che certo, terminata l’emergenza, riprenderà ad attanagliare tutti. Infine riprende tre semplici prassi concrete, da curare per rendere la Parola di Dio familiare, vicina, attingibile
EDITORIALE
don NICO DAL MOLIN
«Penso solo che abbiamo nel petto un piccolo tamburo rosso e che ne abbiamo perduto le bacchette. La scrittura ci restituisce le bacchette, permettendoci di ascoltarci a vicenda e di salutarci come esseri viventi che non sono delle merci o dei clienti. Ognuno di noi, anche quando non ne ha coscienza, sta giocando la partita della propria eternità»[1].
Questa suggestiva metafora è dello scrittore francese Christian Bobin, autore dell’indimenticabile Francesco e l’infinitamente piccolo[2].
Bobin applica l’immagine delle bacchette che suonano sul tamburino rosso alla forza rigenerante della poesia come espressione del raccontarsi profondo e genuino. Per analogia è un’immagine che mi sembra efficace anche per riprendere l’incipit della lettera apostolica con cui Papa Francesco chiede alle comunità cristiane di celebrare «la domenica della Parola di Dio».
«Aperuit illis … Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45).
La Parola di Dio è simile alle bacchette che battono il tamburo per ridare ritmo, suono, intensità, colore alla vita di ogni discepolo di Gesù, in particolare dei presbiteri chiamati a vivere l’ascolto e l’annuncio della Parola.
Conosciamo bene la conclusione del vangelo di Luca nel racconto dell’incontro tra i discepoli di Emmaus e Gesù: «Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”» (Lc 24,32).
Mi ritorna alla mente la parabola degli escursionisti con cui il gesuita Pierre Teilhard de Chardin rappresenta la ricerca della felicità insita nel cuore di ogni essere umano. Per Teilhard la felicità è inserire la propria vita nell’avventura del mondo, declinando tre atteggiamenti fondamentali: creatività, amore, adorazione[3].
Immaginiamo un gruppo di escursionisti partiti per una vetta difficile (…) possiamo immaginarci la loro comitiva divisa in tre tipi di elementi. Alcuni rimpiangono di avere lasciato l’albergo. Le fatiche, i pericoli sembrano loro senza proporzione con l’interesse del successo. Decidono di tornare indietro. Altri non sono dispiaciuti di essere partiti. Il sole risplende. Il panorama è bello. Ma perché salire ancora? Non sarebbe meglio godersi la montagna dove si è, in mezzo ai prati o in pieno bosco? E si sdraiano sull’erba o esplorano i dintorni, aspettando l’ora del picnic. Altri, infine, i veri alpinisti, non staccano gli occhi dalla vetta che si sono giurati di conquistare. E riprendono la salita. Gli stanchi, i gaudenti, gli ardenti. Tre tipi di Uomini di cui ognuno di noi porta il germe dentro di sé, e tra i quali, in realtà, si spartisce da sempre l’Umanità intorno a noi[4].
I «cuori ardenti» sono coloro che non staccano gli occhi dalla vetta e che portano dentro di sé un desiderio immenso di conquistarla. Per essi vivere è una scoperta e l’essere non solo è preferibile al non essere, ma è sempre possibile “divenire di più”. I «cuori ardenti» sono innamorati della ricerca, perché hanno capito che la bellezza della vita è una sorgente inesauribile che non va cercata in un unico posto. Qualcuno li descrive come ingenui, qualcun altro li deride, taluni li ritengono fastidiosi. «Eppure resta il fatto – scrive Teilhard – che sono stati loro a farci ed ecco che da essi si prepara a sorgere la Terra di domani»[5].
Noi tutti viviamo in mondi abitati da tante parole che non ci salvano dal dolore e dalla paura, dal disorientamento e dalla frustrazione di tante promesse veicolate proprio attraverso questi fiumi di parole, spesso abusate ed effimere: felicità, benessere, sicurezza, amore e molto altro ancora.
E tutti noi continuiamo a cercare una conferma a quella promessa, nata con il mondo, che l’amore non finisce e che la morte non è l’ultima parola.
In questo anno appena cominciato, così carico di attese e speranze, un tema fondamentale è la sfida umana e spirituale posta alla nostra fede dalla pandemia. Come nutrire una fede sofferta e provata da questa situazione di restrizione temporale delle libertà e di privazione delle consuete relazioni quotidiane?
Tutto ciò ripropone una riflessione “nuova” sulla centralità della Parola di Dio nella vita della comunità cristiana e degli stessi presbiteri.
La Parola di Dio, bussola della vita
Non so se la parola «bussola», come strumento di orientamento, trovi ancora dei seguaci convinti, in un contesto dominato dal GPS della rete e dalle mappe digitali.
Credo che questo antico strumento di orientamento, legato al bisogno primordiale di non perdersi e di ritrovare la strada di casa, continui a mantenere una sua efficacia narrativa, oltre che pratica. Purché si vada oltre l’eterna lotta di competenze intergenerazionali e di tecnologie a confronto.
In uno dei primi esempi di annuncio evangelico (cf. At 8,26-40), troviamo la domanda che il diacono Filippo rivolge al funzionario etiope: «Capisci quello che stai leggendo?» (At 8,30). È una domanda molto attuale, che dovremmo reimparare a declinare come questione essenziale per il nostro cammino di discepoli del Signore. Negli anni post-conciliari, e ancor più in questi mesi, abbiamo imparato ad accostarci con maggiore frequenza e intensità alla Parola di Dio. L’abbiamo sentita calarsi dentro alle nostre vite con una precisione chirurgica attraverso parole lette tante volte ma ricomprese in tutta la loro forza redentrice.
«Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).
L’ascolto della vita alla luce della Parola significa comprendere che cosa Dio ci sta dicendo e quale cambiamento ci sta offrendo e chiedendo in questo tempo. È una Parola consegnata alla vita concreta delle persone, che ci provoca e interpella: «Come fare chiesa lì, dove si vive la vita?».
I tempi e gli spazi (ecclesiali ed ecclesiastici) finora pensati e occupati sempre più dimostrano di essere come cisterne screpolate che non sono più in grado di contenere l’acqua.
«Abbiamo bisogno di entrare in confidenza costante con la Sacra Scrittura, altrimenti il cuore resta freddo e gli occhi rimangono chiusi, colpiti come siamo da innumerevoli forme di cecità» (Aperuit illis 8).
Nel libro dell’Apocalisse ritorna, come un refrain costante, l’esortazione ad ascoltare lo Spirito: «Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese» (Ap 2,7).
È Cristo stesso a parlare, invitando le comunità cristiane di allora come di adesso a porre attenzione ai suggerimenti dello Spirito, affinché le situazioni più drammatiche e confuse siano lette nell’ottica di Dio.
Ascoltare è un’arte
Dice Papa Francesco: «Il binomio “parlare-fare” non è sufficiente, addirittura può anche ingannare. Il binomio corretto è un altro; è “ascoltare e fare”, cioè mettere in pratica (…) Ecco la chiave per riconoscere i falsi profeti: dicono tante parole, ma non hanno il cuore aperto per ascoltare la parola di Dio, hanno paura del silenzio»[6].
Secondo una statistica sulle dinamiche relazionali, l’ascoltare occupa il 42% della comunicazione, il parlare richiede il 32%, il leggere il 15% e lo scrivere l’11%. Eppure, non ci sono né corsi né lezioni che ci insegnino ad ascoltare, così come ci viene insegnato a leggere, a scrivere e a parlare.
Scrive Simone Weil: «Chi è capace non solo di gridare, ma anche di ascoltare, intende la risposta. Questa risposta è il silenzio. È il silenzio eterno. Chi è capace non solo di ascoltare, ma anche di amare, intende questo silenzio come la parola di Dio. Le creature parlano con dei suoni. La parola di Dio è silenzio»[7].
L’arte dell’ascolto ci permette di leggere in profondità il mondo delle nostre relazioni, attraverso i sentimenti e le emozioni. Ci permette di cogliere ciò che in noi è maschera e apparenza effimera e ciò che è zona d’ombra, di fragilità e limite spesso negato o represso. Solo così si può imparare a riannodare i fili spezzati della propria storia personale[8].
«Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105).
Il salmista ci ricorda che la parola di Dio è una “bussola” di cui fidarsi totalmente, e la paragona ad una lampada. In quei tempi, la fiamma debole di una lampada alimentata ad olio dava luce appena sufficiente per illuminare il passo successivo di chi era in viaggio. La parola di Dio è questa lampada, che provvede la luce necessaria per illuminare il cammino di chi cerca Dio e di chi cerca un senso nella vita.
Affidati alla Parola
Questa espressione è presente nel testo degli Atti degli apostoli ed è pronunciata da Paolo sulla spiaggia di Mileto, nel discorso di addio che egli rivolge ai presbiteri-vescovi della chiesa di Efeso, prima della sua ultima salita a Gerusalemme (cfr. At 20,17.28).
Dopo avere annunciato la fine prossima della sua corsa e aver esortato i suoi interlocutori a vegliare su se stessi e sul gregge loro affidato, Paolo li saluta dicendo: «E ora vi affido a Dio e alla Parola della sua grazia, che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati (At 20,32).
In una sua meditazione, Enzo Bianchi commenta: «I ministri della Parola, come Luca li definisce nel prologo del suo vangelo (Lc 1,2), sono affidati alla Parola di Dio. A loro è certamente affidata la Parola di Dio, ma prima di tutto e soprattutto sono loro stessi ad essere affidati alla Parola, portati dalla Parola, che ha il potere di salvare la vita (cf. Gc 1,21) e che è potenza di Dio (Rm 1,16)»[9].
Affidarci alla Parola, dare tempo e spazio ad essa nella propria vita, significa fare esperienza di una fede generativa che si interroga di fronte alle grandi domande di senso della vita, alla ricerca di felicità o quantomeno di serenità, alla sfida aspra del dolore.
Sono le domande insite nel cuore dell’uomo, spesso rimosse o negate, ma sempre riemergenti dopo sconfitte e fallimenti per aiutarci a coltivare sogni che aprono orizzonti diversi. È una sfida che ci invita ad abitare tutti gli ambiti dell’esperienza umana perché dalla immersione convinta e appassionata nella Parola possiamo trarre la forza e la vitalità che talvolta vengono meno in noi, riscoprendo il calore e la luce di un fuoco sotto la cenere che va ravvivato.
Potremmo individuare una immagine dinamica per questo cammino di orientamento e consapevolezza: è l’icona del pellegrino, dell’homo viator come lo definiva il filosofo Gabriel Marcel, che non è un naufrago disperso, un malinconico randagio o un vagabondo nomade e smemorato.
«Se l’uomo è essenzialmente un viandante, ciò significa che egli è in cammino verso una meta che vede e non vede. Egli non può perdere questo sprone, senza divenire immobile e senza morire»[10].
Con una consapevolezza: «A noi non è concesso avanzare in linea verticale. Non ci è permesso compiere un solo passo in direzione dei cieli. È Dio che attraversa l’universo e giunge fino a noi» (Simone Weil)[11].
[1] Christian Bobin, intervista su Avvenire, 30 aprile 2013 (a cura di Daniele Zappalà).
[2] Christian Bobin, Francesco e l’infinitamente piccolo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 20118.
[3] Nel 1942, quando Teilhard de Chardin era esiliato in Oriente, scrive una meditazione sulla felicità, tradotta in italiano per la prima volta nel 1963 in un volume ora difficilmente reperibile: Giancarlo Vigorelli (a cura di), Il Gesuita proibito. Vita ed opere di P. Teilhard de Chardin, Il Saggiatore, Milano 1963.
[4] Pierre Teilhard De Chardin, Sulla Felicità, Queriniana, Brescia 1990, 19-20.
[5] Ivi, 23.
[6] Papa Francesco, Meditazione a Santa Marta, 25 giugno 2015.
[7] Simone Weil, Appunti sull’Amore di Dio, in L’amore di Dio, Borla, Torino 1968, 205-207.
[8] Cfr. Henri J.M. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Queriniana, Brescia 1979 (201917).
[9] Enzo Bianchi, La Parola di Dio nella vita del presbitero, Meditazione ai Vescovi della Conferenza Episcopale Umbra e ai Presbiteri dell’Umbria, Collevalenza, 17 giugno 2010.
[10] Gabriel Marcel, Homo viator, Borla, Torino 1980.
[11] Simone Weil, Attesa di Dio (a cura di Maria Concetta Sala), Adelphi Edizioni, Milano 20087. È una raccolta di scritti, composti fra l’autunno del 1941 e la primavera del 1942, apparsa postuma nel 1949 a cura di P. Joseph-Marie Perrin, il padre domenicano amico, confidente e destinatario delle sei lettere che, dettate da un grande «bisogno di verità», costituiscono la parte essenziale dell’opera.
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