Editoriale
La povertà non è una meta, ma una strada
Come vive il prete il rapporto con la povertà? È l’argomento che propone questo numero della rivista. Ed è anche uno degli interrogativi che più viene manifestato da chi, credente o non credente, può essere scandalizzato o positivamente impressionato dal contatto con il clero e con la Chiesa in generale.
La prima immagine che suscita un tale interrogativo è quella di Gesù che ai discepoli, curiosi di dove potesse abitare, rivela tutta la sua povertà. «Dove abiti?»…
La sua libertà di incontrare chiunque, di interessarsi soprattutto a chi più soffre, è segno di uno spirito che non è attaccato ai beni, al potere, all’affermazione ambiziosa di sé.
Già dalla prima esperienza di un cammino da intraprendere per annunciare la “buona notizia” c’è una indicazione di libertà e povertà insieme. La storia anche di Israele rivela una opposta tendenza: chi ha ambizione di affermare il proprio potere cerca di assicurare alla propria vita una ricchezza che trova nella dimensione dello spazio una evidente manifestazione.
Davide non può essere da meno di tutti i dominatori che fra i popoli dell’antichità hanno costruito regge e monumenti di imponente grandezza. Contrasto doloroso ed eloquente nel confronto con popoli di nomadi e di pastori che avevano tende o tuguri come abitazione.
Il deserto, come luogo privilegiato di incontro con la propria vocazione e con l’Invisibile, segna per i profeti e per lo stesso Gesù il momento decisivo dell’ispirazione e della conseguente rivelazione, per una missione che punta alle coscienze e che si affida alla libertà di scegliere ciò che vale per un bene che non ha legami con il possedere, bensì con il donare.
Perché la riflessione sui luoghi è la prima che mi è venuta in mente? Girando per l’Europa e conoscendo la realtà dei villaggi africani, ho colto una delle difficoltà più evidenti che il confronto fra i due contesti oggi determina. Nella terra della vecchia cristianità si possono ammirare chiese, santuari, monasteri, conventi, spesso veri tesori d’arte …in molti casi deserti e abbandonati. Tra l’altro rappresentano un problema serio per la loro manutenzione e per i vincoli che obbligano a non poter essere trasformati. Ciò nonostante in molte occasioni hanno perso la loro originaria destinazione, utilizzati come case di accoglienza o alberghi…
Sembra quasi che debbano rappresentare un monito per rispondere alle nuove e spesso drammatiche esigenze del nostro tempo. Un mio confratello si è trovato lo stabile, proprietà della famiglia religiosa, che lui custodiva in attesa di una possibile vendita, invaso da più di cento somali che lo hanno occupato pacificamente, per trovare un riparo in cui vivere.
La vicenda si è conclusa nel migliore dei modi per la collaborazione della Caritas, della partecipazione di volontari ed infine della stessa amministrazione comunale… ma l’interrogativo rimane.
Quanta ispirazione evangelica si vive negli spazi poveri e spesso all’aperto dei villaggi africani, dove le comunità cristiane si raccolgono per la liturgia, per le assemblee comunitarie, per far festa. È un confronto improponibile ma che desta comunque nella coscienza il desiderio di cogliere l’essenziale dell’annuncio e della chiamata ad essere Chiesa.
Problema aperto per noi ecclesiastici e religiosi, che non possiamo sottovalutare il significato che può avere la nostra abitazione. Non è solo questione di immagine, è sostanziale rapporto con l’ambiente in cui siamo chiamati a servire, è occasione di incontro con le persone che ci cercano o che noi dobbiamo accogliere.
Vien da pensare alla scelta di preti, religiosi, vescovi, lo stesso papa Francesco, che escono dai palazzi per essere più vicini alla gente comune, a chi chiede di essere aiutato e accompagnato nelle vicende anche dolorose della vita.
Questione aperta nella stessa responsabilità amministrativa che deve distinguere fra proprietà personale e beni della comunità di cui si è a servizio. Il consiglio economico che dovrebbe vedere i laici partecipi alla conduzione delle stesse parrocchie, quante volte è attivo? Tutti interrogativi che impegnano la Chiesa a farsi vicina ai poveri e a sperimentare essa stessa la povertà come risposta all’invito del Signore.
Quando nel discorso delle beatitudini Gesù dichiara che per essere felici si deve essere poveri, parla della sua stessa esperienza. Una scelta che rappresenta il programma del suo Regno. È la risposta che non di solo pane vive l’uomo, è la scelta per cui l’aver ricevuto “tutto sotto i suoi piedi” non deve rappresentare per l’umanità un rapporto con le cose di possesso, ma la loro valorizzazione, per il bene comune, come uso per condividere, per soddisfare i bisogni essenziali. Risuona il suggerimento che solo se si è liberi nello spirito, si può godere dei beni della terra come dono e non come motivo di competizione, di sfruttamento e di oppressione.
Ancora e sempre per il cristiano è necessario riferirsi alla stessa umanità di Gesù. Sorprende in lui l’interesse dominante a rendere ricchi di amore e di gioia chi incontra, a liberare da ogni tipo di male, a perdonare chi sbaglia, a “salvare”. In lui trova compimento ciò che già nell’antico Israele si cantava della misericordia che offre al popolo la gioia e la salvezza. È proprio nella sua misericordia che Gesù rivela un cuore libero per commuoversi di fronte al dolore, insieme alla grande forza che solleva e redime.
L’espressione più suggestiva dell’Incarnazione è il farsi povero per riempire il cuore di chi soffre, per dare speranza e coraggio di vivere con amore. La povertà di Gesù non manifesta un esercizio ascetico di privazioni, di sacrificio e di annullamento delle proprie risorse. Piuttosto è la continua ricerca di dare valore a chi non riconosce in sé la capacità di amare, di costruire, di realizzare progetti utili anche per gli altri.
La dialettica fra ricchezza e povertà indica il cammino di scelte continue, di chiarezza nel considerare ciò che va cercato e ciò che va evitato. Una spiritualità che annulla le proprie risorse non permette di godere le qualità e le doti che sono necessarie per affermare il proprio essere. L’amore di sé, in vista di amare gli altri, ricorda ciò che per il Signore significa essere veri. Non vuol dire essere nudi, come l’egoismo delle figure di Adamo ed Eva volevano significare… Significa invece rispondere al disegno giusto di un Creatore che ha riempito di beni l’umanità: della sua stessa “gloria e dignità coronata”… ”tutto posto sotto i suoi piedi”…
Quando questa verità dell’uomo “germoglia” dalla terra, è lo stesso Creatore che “si affaccia” dal cielo con un compiacimento che illumina le coscienze, che premia lo sforzo dell’uomo, che ne valorizza il compimento storico. È il compimento del disegno “giusto” del Creatore.
Ritorna l’annuncio che i poveri sono beati…non perché sono virtuosi nell’esercitare la rinuncia e il sacrificio, ma perché sono in grado di dare compimento vero, onesto e disinteressato a quel Regno che Gesù desidera sia vissuto dall’umanità.
Un Regno in cui la diversità non è risultato di una violenza o sopraffazione del più forte, ma è rivelazione di una varietà di doti e possibilità che desta meraviglia per la fantasia dello stesso Creatore.
Andando per ordine e seguendo il cammino di Gesù si può capire quale sia da una parte il valore della povertà e d’altra parte il segno dell’ingiustizia e della violenza umana.
Un conto è scegliere di essere poveri per essere liberi di donare tutto se stessi, altra cosa è essere poveri perché uno è privato di ciò che è diritto proprio e naturale.
Si fa strada la consapevolezza che la stessa misericordia che l’uomo può manifestare ed esprimere nei confronti di chi è “in miseria”, deve portare con sé la volontà di liberare la persona dalle condizioni di privazione e di sofferenza.
Ai Movimenti popolari Francesco, vescovo di Roma, affidava il compito di promuovere, attraverso la terra, la casa e il lavoro, la dignità di chi risulta ai margini, di chi è escluso, di chi è “scarto”.
Potremmo parlare di dialettica fra povertà “passiva” e povertà “attiva”. È il compito che l’economia deve saper organizzare, assicurando non solo l’acquisizione delle risorse necessarie per vivere, ma anche la capacità di rendere gli individui e le comunità sociali autonomi nel costruire la propria vita con dignità e sicurezza. A questo proposito mi viene da aggiungere alle tre dimensioni suggerite da Francesco la necessità che ogni persona sia in grado di intendere e volere, con quella disposizione che solo l’istruzione e la cultura possono assicurare.
Mi viene in mente quello che proponeva un confratello missionario ai giovani che accompagnavo in Ciad per crescere nella loro coscienza e maturità cristiana. Dava loro in mano una zappa e un quaderno… nelle stesse scuole che contribuivamo a costruire si scavava anche il pozzo e i bambini imparavano a coltivare l’orto, con i cui frutti si potevano nutrire nella stessa scuola.
Rimane esemplare la pedagogia di don Milani, non solo per la sua esperienza pastorale di quando era a Calenzano, ma anche per la priorità data all’alfabeto per i ragazzi di Barbiana.
È compito del prete essere coinvolto in questa prospettiva che è insieme spirituale, culturale e sociale? Nella vocazione al servizio delle coscienze è centrale la capacità di cogliere come lo Spirito si esprime in ciascuna persona e in ogni situazione di vita.
Molte volte ci si chiede da dove partire. Troppe volte si è avuto come dominante nella vita e nella pastorale il riferimento al “sesto comandamento”, garanzia per una retta fedeltà alla volontà del Signore. Sono passati in secondo ordine o meno approfonditi il quinto e il settimo….
L’esperienza a contatto con il disagio, con la miseria morale e materiale, con l’illegalità e la corruzione mi ha insegnato che si può uccidere l’individuo privandolo di una formazione adeguata, per vivere responsabile in una società tanto conflittuale e ingiusta. La mancanza del lavoro e prima ancora di una competenza professionale provoca una depressione che può portare alla sfiducia in se stessi e nelle relazioni sociali.
Quante sono le famiglie che si distruggono. Quanti detenuti che incontro nelle carceri hanno avuto come unica scuola e avviamento all’illegalità un ambiente senza prospettive di cultura personale e di impiego onesto.
Le organizzazioni criminali prosperano utilizzando proprio quella parte di umanità che, ai margini del vivere civile, rimane coinvolta dall’illusione di sicurezza che il potere mafioso garantisce. Come una piovra la malavita organizzata ormai si estende in ogni regione del nostro paese come anche all’estero, soprattutto dove ci sono più occasioni di corruzione e di affari illeciti.
Sempre di più nel nostro paese e a livello mondiale la dimensione della povertà assume il carattere violento e aggressivo della disuguaglianza. Si ripetono in continuazione le denunce di una disparità che vede pochissimi ricchi in confronto a una massa di poveri. Il fenomeno delle migrazioni per la fame e delle fughe dai paesi in guerra e sotto le dittature, è oggi la risultante più dolorosa di un fenomeno irreversibile.
Ed è il motivo di paura e di rigetto per molta popolazione dei paesi del “benessere”, che vede in pericolo il proprio stato di vita e la propria sicurezza.
È nella direzione di una nuova coscienza spirituale e morale che va aiutata la comunità cristiana a rendersi partecipe e responsabile di accoglienza, di opportunità di integrazione, nel rispetto della diversità culturale, civile e sociale di chi ospita e di chi è ospitato.
Nella formazione di noi preti, nella ricerca di nuovi orizzonti pastorali, nel coinvolgimento dei laici, non si può prescindere da questa urgenza che ha carattere mondiale. Come in altri casi che riguardano la convivenza civile, sarà anche sempre più necessario uscire dal concepire l’assistenza come prerogativa esclusiva della comunità cristiana. È necessario saper collaborare, saper cooperare con le istituzioni pubbliche o con altri organismi di varia ispirazione, nella conoscenza e nell’applicazione di quelle norme legislative sempre più aggiornate, che possono garantire nel rispetto del diritto una equa distribuzione delle risorse. Si tratta di una visione politica anche per il clero, ben distante dalla presunzione di avere una esclusiva autorità di potere e di legittimità.
Quanto è desolante apprendere come ci siano organismi di servizio e di impegno sociale, spesso vicini alla Chiesa, che garantiscono ai propri aderenti occasione di accumulo di ricchezza, spesso con percorsi di corruzione e di illegalità. Possiamo dire che queste sono le nuove frontiere della carità e della costruzione della giustizia.
Prioritario diviene per noi preti saper coniugare una spiritualità legata strettamente alla figura di Gesù, povero e misericordioso, con l’attenzione a tutte le potenzialità che vanno adottate per far crescere nelle coscienze una responsabilità per partecipare ai processi di sviluppo.
È quello che il Concilio già molti anni fa, e ora il magistero di Francesco, sollecitano, quando invitano non solo noi preti, ma anche le nostre comunità religiose e laicali, a convivere con i poveri, a inserirsi in contesti territoriali di emarginazione, a condividere le situazioni di maggior sofferenza.
Va riconosciuto che è un percorso già esplorato e vissuto dalla Chiesa o dalle migliori esperienze della stessa società civile.
Quanti sante e santi laici o religiosi, hanno scelto di mettersi al servizio dei poveri, ad uscire da situazioni di conforto e di sicurezza, fino ad affrontare anche violenza e martirio.
Possiamo dire che in questo lo Spirito continua a soffiare su un mondo tormentato e pieno di sangue e di sofferenza. Ci sono delle urgenze che premono, come quella del superamento di oppressione, sfruttamento di interi popoli. Come è sempre più evidente che permane nello scenario mondiale l’esecrabile appropriazione e lo sfruttamento di risorse di cui sono ricchi i paesi più poveri da parte di multinazionali che sono in mano ai paesi più ricchi. Ancora più grave è il fenomeno della delocalizzazione di attività produttive alla ricerca di paesi dove il costo del lavoro è più vantaggioso per un capitalismo sempre più selvaggio. I paradisi fiscali sono infine il segno di una finanza dominante che favorisce gli interessi di evasori, di società, di politici e di imprenditori.
Si fa sempre più evidente la priorità di aderire alla ricerca di una cultura della pace, che, prerogativa dell’annuncio evangelico, sappia dire no alle armi, sappia ridisegnare i sistemi di cooperazione e di diplomazia internazionale, sappia contestare il militarismo sempre più imperante.
Nella meditazione che può impegnare noi preti quando leggiamo la Parola o apparecchiamo la Mensa del Signore, una sana inquietudine può trasformare il desiderio di contemplare cieli e terre nuove in azione pastorale e civile in cui formare e coinvolgere i laici, veri protagonisti delle “realtà temporali”.
p. FABRIZIO VALLETTI sj