4 – 2018 Diocesani e consacrati: preti di un’unica Chiesa.

Editoriale


 I doni dello Spirito hanno diverse forme

I contributi che il presente numero della rivista ci offre ricoprono una visione storica, giuridica e pastorale del tema che vive una attualità significativa. C’è da rallegrarsi se il rapporto fra clero diocesano e famiglie religiose rivela tutt’oggi qualche problema. Ogni difficoltà che si incontra nella Chiesa è segno che siamo vivi e che ciascuno cerca giustamente di dare spazio e riconoscimento alla propria missione.
Perché due realtà così vive e che sono frutto di ispirazione e di evidente dono dello Spirito possono non sempre trovare sintonia e collaborazione? È proprio dalla riflessione sulle difficoltà che può nascere una rinnovata motivazione alla valorizzazione di quanto la Chiesa può vivere nel servizio non solo dei credenti ma in genere della società intera.
È bene infatti porsi in una dimensione di apertura al mondo e non solo nella preoccupazione di un benessere e sicurezza da vivere all’interno delle proprie strutture e della propria azione. Più che porsi nella dialettica fra istituzione e ispirazione, che spesso viene sottolineata nel considerare le ragioni di crisi e per molti di allontanamento, mi sembra opportuno vivere la tensione fra istituzione e missione.
Sia le strutture di riferimento del clero diocesano che le famiglie religiose sono oggi infatti invitate a rivedere il loro modo di vivere e di esprimersi in una società secolarizzata e fortemente condizionata da espressioni di mondanità e “paganesimo”.
Dato per scontato che è superata l’epoca di una cultura che soprattutto nell’area occidentale aveva connotati di cristianità ma non sempre di evangelica testimonianza, può essere stimolante scoprire come la “vocazione” a servire il vangelo oggi può assumere espressioni sempre nuove e vive.
Il clero diocesano è da sempre orientato a vedere la centralità della parrocchia come migliore e più efficace strumento di evangelizzazione e di presenza nel mondo. La stessa vocazione di molti preti nasce infatti nella vita delle stesse parrocchie e aspirazione di un futuro impegno pastorale è proprio vivere il proprio servizio in una parrocchia.
Il legame con un territorio preciso è stato indispensabile per entrare in comunanza di vita, di interessi materiali e spirituali con una popolazione residente che almeno per tanto tempo aveva anche carattere di stabilità. Nei primi tempi della Chiesa le parrocchie rappresentavano anche un motivo di pacifica convivenza, onesta e laboriosa. Quando l’impero romano rivelava la profonda crisi per i conflitti interni e per la diffusa corruzione, le parrocchie rappresentavano anche un esempio di saggia amministrazione e di rispetto della legge…
Quanti vescovi erano eletti dallo stesso popolo fra i più stimati amministratori del bene pubblico! Non altrettanto saggia può essere stata la decisione per l’impero romano d’occidente con l’andare dei secoli di coniugare la responsabilità pastorale con la carica civile e politica di “principi” elettori dello stesso imperatore. I castelli della Baviera sono ancora un segno di un connubio che non ha certo brillato per spirito evangelico. Il residuo di una tale commistione di rilevanza sociale e politica ha segnato per molto tempo la storia della Chiesa specie nei paesi di antica tradizione cristiana.
Il problema è ancora aperto?
In molte regioni dell’Italia, fino a non molti anni fa, la parrocchia rappresentava un riferimento non solo religioso, ma anche culturale e politico. Quale presenza è chiamata a rappresentare oggi per la vita del popolo, dopo che con il Concilio Vaticano II è stato sottolineato un rinnovato impegno nel mondo contemporaneo?
È chiaro che in virtù di tale domanda non diminuisce quello che si chiede al prete diocesano, parroco e legato a un preciso territorio, di sentirsi parte di un presbiterio nel vivere e nell’esprimere la propria missione evangelica, in comunione con il vescovo e con gli altri preti della propria diocesi. L’istituzione è necessaria ed è giusto che sia ben strutturata, tanto da permettere che la missione sia efficace e che garantisca presenza e servizio per la popolazione del territorio che corrisponde ai confini di una parrocchia.
Il cammino di un religioso ha caratteristiche diverse. È importante a tale proposito considerare che per “religioso” non possiamo considerare solo le famiglie religiose maschili. La maggior parte delle esperienze religiose legate ai tre voti, alla fraternità e al servizio non strettamente territoriale, accomuna infatti le comunità maschili e le comunità femminili.
La dialettica fra la presenza del clero diocesano e quella delle famiglie religiose va infatti affrontata con discernimento.
Un tempo si denominava la scelta religiosa come un cammino preferenziale nel seguire i consigli evangelici. È per tutti i cristiani l’invito di Gesù a seguirlo nel suo essere al servizio di tutti, con la dedizione e la misericordia che ci riferiscono i vangeli.
Anche il prete diocesano è chiamato a una dedizione evangelica e a saper incontrare e accogliere chiunque… senza risparmiarsi, come molti santi “curati” hanno mostrato.
E allora può essere importante entrare nello stesso mondo interiore di chi è chiamato alla vita religiosa per cogliere la specificità di uno stile di vita personale e comunitario.
Se è comune nella Chiesa latina la chiamata al celibato e alla castità sia del clero diocesano, sia dei religiosi e delle religiose, non è altrettanto simile l’esperienza dell’obbedienza e della povertà.
Forse su questa diversità va posta maggiore attenzione per una comprensione reciproca di come vivere i doni dello Spirito. È infatti alla chiamata dello Spirito, che potremmo tradurre con il termine di “ispirazione”, che bisogna rifarsi per apprezzare le diverse ma preziose condizioni di impegno e di servizio apostolico.
I fondatori delle varie esperienze religiose, nella storia della Chiesa, hanno spesso superato la logica di un servizio strettamente pastorale e territoriale, per offrire le risorse della propria vita a più diversificati impegni di servizio, per rispondere a esigenze non solo spirituali ma anche legate alle varie forme di povertà e di sofferenza. Significativi obiettivi sono stati per esempio il promuovere lo sviluppo di chi viveva nelle campagne con il lavoro della terra e con la preghiera, l’assistenza ai malati, l’alfabeto per i più ignoranti, ma anche la cura della formazione dei preti e la presenza nel campo della scienza e dell’arte. Una multiforme ricchezza di esperienze che sono state lievito per la crescita di un umanesimo basato sulla libertà degli individui e su una più concreta giustizia sociale.
Già il Concilio ribadiva che l’evangelizzazione non è solo annuncio e proposta di vita sacramentale e liturgica. Quando manca nella persona la condizione di sentirsi pienamente cosciente e capace di esprimersi con dignità e libertà, non può maturare una fede consapevole e responsabile.
Molte scelte delle comunità religiose sono indirizzate ad unire l’annuncio della Buona Notizia con la promozione di
una degna vita culturale e sociale.
Molte incomprensioni nella storia della Chiesa, anche contemporanea, nascono da una non accettazione di tali prerogative o dal fraintendimento delle priorità apostoliche che spesso appaiono divergenti.
Prima ancora che obbedire a una necessaria gerarchia ecclesiastica è importante obbedire al carisma proprio della famiglia religiosa di appartenenza. In questo senso l’obbedienza di un religioso o di una religiosa non è solo indirizzata verso un luogo in cui servire, nel rispetto della direttiva proposta dal vescovo, ma nell’ottemperare a un particolare progetto apostolico che comporta preparazione, competenza e condivisione.
In molti casi il religioso e la religiosa sono invitati attraverso la spiritualità propria della famiglia religiosa a saper offrire l’annuncio evangelico attraverso le varie forme di sevizio. Si potrebbe dire che una forma tale di vita si avvicina molto alla laicità, all’impegno a cui sono chiamati gli stessi laici. Ciò permette di avvicinarsi con sincerità e dedizione a molti anche non credenti, così detti lontani, che altrimenti rimarrebbero sempre fuori del contesto ecclesiale e in particolare delle parrocchie.
Questa comprensione della varietà dei servizi è un’esperienza che potrebbe avvicinare molto i preti diocesani ai religiosi e alle religiose nella ricerca di una condivisione di obiettivi apostolici, comuni nel fine da raggiungere pur nella diversità dei mezzi e dei metodi da usare.
Un particolare da non sottovalutare è la ricchezza che soprattutto le religiose possono apportare nella comprensione al femminile di molta parte della popolazione, che la sensibilità maschile del prete non è in grado di cogliere, provocando speso una limitata partecipazione alle problematiche personali e familiari.
Quanto spesso invece le religiose sono impegnate in ruoli di servizio in cui non possono esprimere la loro personale ricchezza spirituale e culturale.
Se è così importante la condivisione delle due componenti la realtà ecclesiale, preti diocesani e religiosi, si potrebbe pensare che quando una comunità religiosa assume il servizio parrocchiale, si moltiplica il valore di una esperienza… Sono molte le circostanze in cui i religiosi per iniziativa propria o per rispondere a un invito dei vescovi fanno la scelta di guidare una parrocchia. L’esperienza dice che il modo di condurre un tale servizio da parte dei religiosi si diversifica da come viene vissuto dai diocesani, tanto da provocare in taluni casi perplessità. In effetti spesso lo stile con cui i religiosi conducono la vita di una parrocchia ha caratteristiche sue proprie, derivanti da una spiritualità particolare o dai legami che il prete religioso ha con le altre realtà che sono caratteristiche di una famiglia religiosa…
Tanti sono gli interrogativi a cui è spesso necessario dare risposte di accoglienza, di ascolto e di consenso fraterno.
Soprattutto nella stagione postconciliare si sono sviluppate nella Chiesa realtà che se non possono essere assimilabili alle famiglie religiose, sono comunque parte integrale della evangelizzazione. Mi riferisco alla multiforme varietà degli istituti laici di vita consacrata o alle associazioni che hanno statuti propri per una presenza apostolica nella Chiesa e nel mondo. Sono noti a tutti e non serve nominarli.
Anche per questa realtà che rivela una rinnovata vitalità dello Spirito nel chiamare i fedeli a seguire il vangelo con generosità e totale dedizione, si pone il problema di come rapportarsi con l’istituzione tradizionale e ancora diffusa delle parrocchie.
Molti preti diocesani e anche religiosi assicurano una presenza importante nell’assistere il cammino di servizio e di formazione di queste associazioni o di istituti secolari. Anche in questo caso c’è da riflettere sul perché, non ritenuta sufficiente la spiritualità che una parrocchia fa vivere, si ricorra a forme di vita spirituale, a percorsi anche di catechesi o perfino a stili liturgici propri, ormai presenti in molte parrocchie.
Per molti parroci, diocesani o religiosi, queste esperienza sono apprezzate, incoraggiate e seguite. Per altri rappresentano una proposta limitante, riservata a gruppi particolari che spesso entrano in difficile relazione con la vita ordinaria della pastorale parrocchiale.
È un dato che molte di queste istituzioni vanno moltiplicando la loro presenza, riscuotendo anche molta attrazione
fra i giovani. Basta pensare che se vanno diminuendo le vocazioni alla vita religiosa o all’ingresso nei seminari per divenire preti diocesani, sono numerosi i giovani che frequentano appositi percorsi formativi propri di nuove realtà ecclesiali, in specifici seminari e facoltà teologiche.
È un nuovo orizzonte che va esplorato, nella ricerca di positivi indicatori per capire le mutate esperienze di fede e
di servizio evangelico, ma anche per una necessaria revisione di come le proposte tradizionali possano oggi rispondere alle esigenze di una nuova evangelizzazione.
Non si può parlare di situazioni conflittuali all’interno della Chiesa, ma certo di occasioni che provocano da una parte reale disagio e dall’altra motivo di speranza e di crescita…

p. FABRIZIO VALLETTI sj