4 – 2020

Editoriale


don NICO DAL MOLIN

Come parlare della vita e del ministero presbiterale, oggi, in un momento in cui i criteri di definizione di tanti modelli identitari – professionali e sociali, ecclesiali e pastorali – anche quelli più tradizionalmente codificati, sono profondamente incerti e appannati?
Nel discorso preparato per la liturgia quaresimale con il clero romano, letto dal cardinale vicario Angelo De Donatis, papa Francesco ha proposto una singolare meditazione sulle “amarezze” nella vita dei preti, indicando anche gli antidoti.
Una “riflessione ad intra”, l’ha definita il Papa, che in maniera confidenziale e diretta ha messo sul tappeto alcuni aspetti della vita attuale dei preti, rileggendoli con realismo e verità, ma anche con profonda speranza.
«Desidero parlare con voi di un sottile nemico, che trova molti modi per camuffarsi e nascondersi e come un parassita lentamente ci ruba la gioia della vocazione a cui un giorno siamo stati chiamati. Voglio parlarvi di quell’amarezza focalizzata intorno al rapporto con la fede, il Vescovo, i confratelli».
E continua: «Guardare in faccia le nostre amarezze e confrontarsi con esse ci permette di prendere contatto con la nostra umanità, con la nostra benedetta umanità. E così ricordarci che come sacerdoti non siamo chiamati a essere onnipotenti ma uomini peccatori, perdonati e inviati. Come diceva sant’Ireneo di Lione: Ciò che non è assunto non è redento».
La forza di una metafora Qualche tempo fa ho rivisto il film Apollo 13: l’andare sulla luna, dopo l’impresa di Apollo 11 nel 1969, sembrava oramai una strada spianata, quasi scontata. Tuttavia, l’attenzione del mondo si riaccese improvvisamente quando la sera del 13 aprile 1970 (neppure un anno dopo il primo allunaggio), nella sala di controllo di Houston rimbalzò la voce dell’astronauta Jack Swigert: «Okay Houston, abbiamo avuto un problema qui». C’era stata un’esplosione a bordo e la navicella stava perdendo rapidamente ossigeno. Le riserve di energia erano scarse, mancava l’acqua, ma soprattutto i filtri dell’anidride carbonica non erano sufficienti a garantire l’ossigeno per la durata del viaggio di ritorno sulla terra. Così, arrangiandosi con i materiali che trovarono a bordo e con la guida del centro di controllo gli astronauti costruirono un adattatore, che chiamarono la cassetta della posta, che permise loro di respirare per altri quattro giorni e di completare il rientro. Questa intuizione è conosciuta come il segreto delle 3 B: Bending, Breaking, Blending, cioè piegare, frammentare, mescolare.
Anche noi, oggi, siamo chiamati a vivere qualcosa di simile: ripensare la dimensione esistenziale e pastorale del presbitero a partire dalla sua intima «identità relazionale». «Per il prete è l’altro la ragione del proprio esistere: che si tratti dell’altro con la “A” maiuscola, o dell’altro con la “a” minuscola».
Le idee creative non nascono dal nulla, ma imparando a rimodellare ciò che è già parte della ricchezza di un vissuto umano e pastorale, adattandolo in maniera diversa e quindi nuova; con uno sguardo capace di “andare oltre, più in là” a quanto sin qui vissuto e praticato.
Per fare questo è essenziale «costruire i granai della memoria, per ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire».

Nuove vie da percorrere
Le nostre società, organizzazioni e istituzioni – la Chiesa non è solo questo, ma è anche questo – sono investite e attraversate da mutazioni profonde che generano ansie e interrogativi.
Gli equilibri sperimentati in questi anni, per esempio il modello delle “unità pastorali”, si colorano di significati e forme non omogenee tra loro, che non sempre danno i risultati sperati. Questo ci spinge sempre più ad operare in base a probabilità piuttosto che a certezze; e non siamo abituati a questo. Questa situazione ci fa sentire fragili e inadeguati. La crisi è fuori, ma anche dentro di noi, nelle menti e nei cuori.
Resistere non basta, perché non appare realistico proteggersi in attesa di un ritorno di uno status quo ante che in queste condizioni non può tornare. Resistere significa vivere i mutamenti cercando di contrastarli, difendendo la propria condizione, non modificandola. Spesso rinchiudendoci in un ambiente protetto, isolandoci, prendendo le distanze. Ciò che ci mette in crisi è visto di fatto come un nemico.
Scrive Bonhoeffer: «I limiti tra resistenza e resa non si possono determinare dunque sul piano dei principi; l’una e l’altra devono essere presenti e assunte con decisione. La fede esige questo agire mobile e vivo. Solo così possiamo affrontare e rendere feconda la situazione che di volta in volta ci si presenta». Quando le crisi sono così profonde ed epocali, è necessario generare qualcosa di diverso, in grado di alimentare veri processi di crescita.

Chiamati ad una esperienza generativa
Riprendendo le parole del Card. De Donatis, nella lettera ai preti di Roma della scorsa estate, possiamo dire che «questo nostro tempo non ha bisogno di pensatori isolati, che elaborano piani a tavolino, ma piuttosto di esploratori coraggiosi, come quelli inviati a perlustrare le vie che portano alla terra promessa».
Per questo tipo di cammino non abbiamo a disposizione nessun manuale di istruzioni, ma solo una bozza di road map su cui provare a camminare insieme, sperimentando la risorsa preziosa della comunione fraterna.
Nel generare, infatti, è inscritta l’idea del rapporto con l’altro. Si genera in una relazione; da soli è impossibile generare. L’immagine più efficace del generare è indubbiamente quella della “riproduzione umana” di ogni essere vivente. In essa è determinante l’atteggiamento dell’accompagnare una evoluzione che non è istantanea, ma che si presenta piuttosto come un processo complesso, disomogeneo e spesso anche conflittuale.
Un processo in cui il grande investimento è quello di prendersi cura delle relazioni, a tutti i livelli. Si può generare finché si mantiene vivo l’interesse e la passione per la diversità. La generatività richiede il desiderio dell’altro: se si è pieni di sé, delle proprie idee, delle proprie esperienze considerate come assolute, non c’è spazio per generare, ma solo per ripetere. Nel generare è pure inscritto un gap profondo tra idee e desideri, tra sogni e azioni/risultati che ne conseguono.
È molto importante mantenere questa consapevolezza. Il rischio sempre in agguato è quello di cercare la soluzione ai nostri problemi là dove riusciamo a vedere con maggior chiarezza, nelle realtà sperimentate e chiarificate dalla nostra esperienza. Ma le soluzioni sono da cercare altrove, in quei posti meno illuminati e quindi inesplorati, dove la nostra conoscenza non è ancora in grado di dire qualcosa di preciso. L’arte della generatività richiede di imparare la flessibilità per riconfigurare il problema, senza focalizzarsi necessariamente sulla soluzione di ciò che immediatamente appare come “il problema”.

Come liberare la brace dalla cenere?
In quella che è considerata l’ultima intervista del Card. Carlo Maria Martini, una sorta di testamento spirituale, pubblicata all’indomani della sua morte, egli diceva: «Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? (…) Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala?»
Credo davvero che il primo compito che ci aspetta sia quello di liberare la brace che ci arde dentro da quella cenere che spesso la soffoca. Il nostro comune impegno è di “essere i custodi di quel fuoco”. Ogni fuoco, anche quello acceso nel roveto di Mosè, pur se inizialmente grande e potente, se non viene curato e alimentato continuamente, rischia di affievolirsi fino a spegnarsi. «Per questo motivo ti esorto a ravvivare il dono di Dio che è in te, per l’imposizione delle mie mani» (2Tm 2,6).
San Paolo, quando scrive a Timoteo esortandolo a perseverare nel servizio del Vangelo, usa il verbo greco anàz opyrein (cfr. 2Tm 1,6), che esprime il gesto di riattizzare il fuoco sempre in pericolo di spegnersi.
Come essere custodi del fuoco acceso in noi? Come essere custodi di quel «sogno di chiesa» che Papa Francesco ci ha consegnato in Evangelii Gaudium? Come essere custodi di un «processo» che amplifichi e concretizzi la «visione» evitando la tentazione sempre in agguato di uno schiacciamento sul funzionale e sul pragmatico? Il rischio latente è che una volta ancora cerchiamo di trovare soluzioni e motivazioni attraverso i circuiti di sempre, cercando di individuare all’interno della nostra realtà di preti possibili vie per una nuova identità umana e pastorale, che sembra essere la fatica unanimemente individuata. È difficile, se non impossibile, immaginare di “riscattarci” da soli. In questo momento c’è bisogno di una pluralità di sguardi che vada oltre la nostra autoreferenzialità e i nostri codici percettivi e interpretativi.
C’è bisogno di un cammino che non abbia solo di mira la vita e il ruolo del presbitero, ma che si collochi nel contesto più ampio e realistico di ripensare insieme il modo di essere della comunità cristiana. È prematuro o non è piuttosto urgente immaginare questo?

Concludendo
Questo cammino non ci darà soluzioni immediate che cancellino o rimuovano le nostre fatiche e trepidazioni, ma può aiutarci a rianimare il lucignolo, talora fumigante, della nostra fede nell’opera dello Spirito Santo. In questa cultura narcotizzata e satura, stanca e insieme frenetica, ci sentiamo «dolcemente accompagnati» dallo Spirito per essere profeti e seminatori di fiducia.
«So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,13b-14).
In queste parole di Paolo possiamo ritrovare l’invito ad una conversione pastorale in senso missionario, così come auspicata da Papa Francesco, ma è nitido anche l’incoraggiamento a vivere l’esperienza di una conversione personale, imprescindibile per avviare qualsiasi processo di rinnovamento pastorale e comunitario. Siamo chiamati ad essere uomini aurorali che, come le sentinelle bibliche (cfr. Sal 130,6), sanno cogliere le prime striature di luce di un’alba nuova in cui possiamo credere. Siamo chiamati ad essere uomini che, prendendo su di sé le vite degli altri, vivono l’amore senza contare fatiche e paure; ad essere concreti e insieme sognatori; ad essere il volto di coloro «il cui compito supremo nel mondo è custodire delle vite con la propria vita».

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