5 – 2018 Se un prete lascia…

Editoriale


Tra abbandono e ricerca di autenticità

Fra gli argomenti affrontati dalla rivista quello che offre il presente numero è dei più impegnativi. I contributi lo rilevano da prospettive diverse, anche per le testimonianze dirette di chi ha “abbandonato” il sacerdozio.
È doveroso sottolineare la parola abbandono proprio per suggerire come premessa che il problema normalmente viene presentato da chi è all’interno dell’istituzione e che considera il prete che cambia prospettiva di vita come un perdente, come uno che è “uscito”… in qualche modo ha tradito una istituzione. Viene spontaneo, ma anche doveroso chiarire un problema con una visuale ampia e serena… risalire al momento in cui uno si sente chiamato all’essere prete. Già il panorama si fa ampio e variegato. Come per altre scelte il punto di partenza può essere legato all’ambiente, alle persone, a determinate esperienze, con una ispirazione all’inizio di un cammino ancora molto parziale e necessariamente soggettiva.
Nell’immaginario di chi si orienta all’essere prete le motivazioni più spirituali si intrecciano con i modelli culturali e con il riferimento a persone o a comunità di cui non è certo possibile cogliere, all’inizio di un percorso formativo, la complessità degli elementi che compongono l’esperienza nel suo divenire.
Si può parlare di immagine proprio perché il percorso di formazione che conduce alla pienezza di una identità istituzionale come è quella del prete prevede l’incontro di un sentimento e di un ideale insiti nella coscienza, con una realtà come è quella ecclesiale che ha una storia, una struttura, una varietà di espressioni che si possono comprendere, cogliere e accettare solo nel tempo e nella diversità di luoghi e situazioni diversificate.
Se c’è un immaginario personale e soggettivo, altrettanto presente è l’immaginario collettivo che spesso assume carattere istituzionale e culturale piuttosto che ricerca costante di adeguare la stessa esperienza del presbitero alle mutate e diverse situazioni di vita che la storia propone. È proprio da un contesto istituzionale così determinato che può partire un giudizio critico verso chi matura una scelta di cambiamento, di ricerca, per una nuova condizione di vita che risponda a nuove esigenze e motivazioni non rilevate in precedenza.
Sono premesse molto generali e discutibili, ma ritengo necessarie anche per vivere il problema con un atteggiamento aperto e flessibile da parte di chi può e deve interrogarsi sulle possibili responsabilità personali e dell’istituzione, partendo da una posizione di sicurezza e stabilità di fronte a situazioni di insicurezza, sofferenza e spesso debolezza.
Se rimaniamo anche nella prospettiva della condizione teologale che assegna al sacramento dell’Ordine il carattere di status di grazia e di sacralità, indelebile e in qualche modo di perfezione rispetto allo stesso sacerdozio dei fedeli, la rinuncia ad esprimerlo nel servizio presbiterale rappresenta un vulnus di una certa gravità. Si vive una delle tante situazioni in cui la definizione ontologica di una “grazia di stato” permane nella vita del cristiano anche a prescindere dall’importanza che ha l’intenzione soggettiva nel decidere ciò che può rispondere all’invito dello stesso Spirito. Si spiega così anche la necessità di avviare un processo canonico per giungere alla dispensa di un vincolo sacro.
Fra le situazioni di vita che ciascuno può incontrare e affrontare, la crisi di chi sente la necessità di cambiare il proprio stato di prete ha una complessità di componenti che non possono essere valutate con superficialità e peggio ancora con pregiudizio.
L’importanza che ha assunto il ricorso alle scienze umane, e in particolare alla psicologia, oggi permette di cogliere tutti i possibili nessi fra situazioni di crisi in atto e ragioni pregresse che possono aver condizionato scelte non del tutto mature. Un fenomeno altrettanto possibile è la rimozione di esperienze negative, addirittura abusi durante il seminario, che riemergono nel tempo e che determinano lacerazioni e consapevolezza di una fragilità non risolta. Spesso nella considerazione immediata che emerge di fronte a chi sceglie di cambiare vita prevale l’idea di una esperienza affettiva che non si riesce a chiarire tanto facilmente. Un iniziale desiderio di totale dedizione con il tempo può rivelare una condizione interiore non valutata sufficientemente e una prospettiva di cambiamento che comporta il desiderio di formare una famiglia e comunque di rinunciare al celibato. Di esperienze simili ne conosciamo diverse… e può essere anche segno di coerenza rivedere personali comportamenti. Recentemente un amico che ha fatto la scelta di formare una famiglia mi confidava che riteneva giusto uscire da una situazione di ambiguità che lo portava a una doppiezza di vita.
La varietà delle situazioni è talmente vasta che lo stesso dedicare e riunire contributi in un numero della nostra rivista non può esaurire un adeguato approfondimento. Vale però la pena scegliere una lettura non “canonica” del problema, ma accostarci con semplicità e buone intenzioni al risvolto umano di chi personalmente vive la scelta, senza trascurare anche il riflesso che molte decisioni determinano nelle comunità da cui il prete si allontana.
Quella che in genere si considera una “caduta”, un “cedimento”, può anche essere frutto di un processo di non realizzazione di un ideale, in questo caso di servizio. Mettendo da parte la possibilità di un non adeguato discernimento iniziale nella scelta di un impegno presbiterale, vanno considerate tante variabili che nel tempo intervengono nell’esperienza del prete.
È indubbio che è prioritario un investimento “spirituale”, fondamento di una relazione che vede l’uomo in rapporto con un “ispiratore” invisibile, ma presente nella fede. È proprio nel quotidiano che il prete può e deve avvertire che il suo servizio si fonda sulla presenza di uno Spirito che affida all’uomo di dispensare i suoi benefici, di rimuovere il male, di perdonare e riconciliare; è soprattutto nel momento che, per l’effusione dello Spirito, il prete rende presente nel Pane di vita la stessa vita di Gesù, si dà compimento alla missione di riunire il popolo di Dio e di aiutarlo a divenire esso stesso il Corpo di Cristo. Un servizio di tale intensità richiede un aggiornamento costante di preghiera e di fede nel tenere viva la relazione con lo stesso Spirito del Risorto. La caduta di tale tensione interiore può ridurre il prete al ruolo di un funzionario nella “gestione del sacro”.
Gli elementi di forza che possono sostenere un servizio così impegnativo spesso si confondono con le condizioni culturali e sociologiche che apparentemente danno sicurezza nell’esercizio di un ruolo. Specie in ambienti di tradizione religiosa popolare o in realtà molto strutturate per un clericalismo radicato, è facile che il prete goda di stima, di fiducia e di rispetto, a prescindere dalla sua reale identità “spirituale”. È la situazione che porta molti ad essere più funzionari del sacro che profetici annunciatori di una “Buona Notizia”, che i fedeli sono chiamati a scoprire personalmente e comunitariamente.
Una simile condizione può alla lunga rendere così mondana la vita del prete da non fargli sperimentare una debita
distanza dal modo di vivere della gente consolidando le sue scelte di austerità, di povertà, di dedizione assoluta e generosa.
Ci si può conformare anche all’ingannevole cornice che una religiosità basata sul “consumo del sacro” può proporre.
Da una tale confusione si può col tempo determinare una fragilità di convinzione e di coscienza, causa possibile di una caduta di motivazioni nel perseverare come prete.
La comunità dei fedeli può ben aiutare anche in tali situazioni il prete nel cogliere il vero senso di un servizio che prioritariamente abbia carattere “spirituale” e di testimonianza.
Non basta infatti amministrare i sacramenti, nella pastorale ordinaria spesso abitudinaria e vissuta senza interiorità, perché si formino coscienze responsabili, capaci soprattutto nella laicità di essere segni efficaci per una pratica evangelica. La mancanza di passione spirituale e apostolica incide nella possibilità che individualmente e come comunità di fedeli si viva nel contatto col mondo, guidati dallo Spirito, nel discernere il cammino migliore e più vicino al vangelo.
La caduta di energia interiore e di adeguata sensibilità culturale nel rapporto con ciò che il mondo ci propone, può
essere determinante nel sentire sempre meno attraente una vita dedicata al servizio di prete in mezzo alla gente. È allora che la scelta di “rompere un legame” ormai consunto e fragile si presenta come benefica soluzione, per recuperare comunque una dimensione di vita personale e libera da vincoli non più avvertiti come portatori di valore. Nella progressiva crisi di un’esperienza che richiede serena e gioiosa incarnazione dei doni che lo Spirito rinnova, quanto può influire la solitudine e la mancanza di un vigile accompagnamento? Sarà il caso di una non presente attenzione del vescovo o degli stessi fratelli del presbiterio?
Può d’altra parte essere una crisi di identità, sintomo di insoddisfazione rispetto a esigenze non realizzate? Quanto può giocare una sincera ricerca di autenticità e di rinnovamento invano raggiunta? Negli immediati anni che sono seguiti al Concilio, molti preti hanno lasciato il loro servizio o l’hanno proseguito scegliendo lo stato laicale. Molti di loro ricoprivano responsabilità di governo in comunità religiose o nelle diocesi, altri erano docenti di teologia o di discipline comunque attinenti alla formazione del clero… un distacco che aveva di certo ragioni non banali. La spinta innovativa che il Concilio aveva messo in moto nella pratica pastorale e nell’elaborazione del pensiero teologico era un segno di speranza che per molti significava l’adeguata risposta al fenomeno dirompente della secolarizzazione e alla evidente mancanza di dialogo con la cultura e in genere con il mondo contemporaneo.
Era un segno di speranza e spinta per sperimentare nuovi percorsi di evangelizzazione. Per molti era in atto una forma di “restaurazione” o comunque la scelta di non uscire da quello che la tradizione garantiva come status quo sicuro e da non mettere in discussione. Quanta sofferenza provocò la mancanza di una serena comunicazione e di dialogo fra opposti sistemi di pensiero e soprattutto il non riconoscimento di valide sperimentazioni? Non tutti hanno vissuto il radicale sentimento di obbedienza e di sottomissione che ha permesso a don Milani di perseverare nella sua fedeltà alla Chiesa e al suo servizio di prete, nonostante le incomprensioni e l’isolamento in cui era stato relegato.
D’altra parte la non abitudine ad elaborare una libera ricerca nel seguire il pensiero anche nelle sue appassionate
conflittualità ha provocato in quegli anni la mancanza di un confronto aperto nel dialogo, ha significato forme di dissenso, di opposizione e anche di allontanamento. In tali situazioni si può parlare di un deficit dell’istituzione nella responsabilità di non mettere in discussione consuetudini inveterate, che in effetti rivelavano una debolezza di efficacia apostolica e spesso di coerenza ideale. Quanto sarebbe stato più profetico rendere possibili e sostenere sperimentazioni che nella pastorale soprattutto significava essere più immersi nella società e soprattutto in contatto con i poveri e gli esclusi. Non sono mancate censure e forme di opposizione che hanno provocato anche tensioni e sofferenza per intere comunità. La perseveranza del prete in simili situazioni non è così facile da sostenere e non sempre si può godere di quel supplemento di “spirito di sacrificio e di offerta” che dona al cuore una consolazione capace di superare ogni ostacolo.
Il discernimento spirituale, costante e sempre nuovo, appare necessario come supporto a quella indispensabile comprensione dei fenomeni mutevoli e contrastanti che la società propone. È proprio di fronte all’accelerazione che i cambiamenti di costume, di mentalità e di cultura presentano, che è necessario soprattutto per il prete avere uno sguardo attento e competente. Non serve giudicare e respingere, ma conoscere e comprendere per riuscire a colmare i vuoti e a liberare dai condizionamenti. Forse per alcune situazioni che vive lo stesso prete la prima libertà va sperimentata nel proprio essere e nel proprio modo di vivere.

p. FABRIZIO VALLETTI sj