Presbyteri 5_2021

L’ARTE DELL’OMELIA

Carissimi lettori,

il tema di questa monografia non è certo nuovo, ma siamo convinti che sia un argomento sul quale vale la pena tornare. All’importanza che da sempre e ancora oggi viene data alla preparazione e alla comunicazione dell’omelia (basti pensare a Evangelii gaudium!) si uniscono le grandi trasformazioni che il tempo dell’emergenza Covid ha richiesto al nostro modo di celebrare e ai contenuti e alle forme della nostra omelia.

Ci è sembrato dunque urgente suggerire alcuni spunti perché i presbiteri possano riconsiderare la loro predicazione, partendo da una visione più chiara dei suoi elementi propri (don Dario Vivian) e dalla necessità di considerarla all’interno dell’intero contesto della celebrazione eucaristica (don Luigi Girardi), senza dimenticare uno sguardo alle fonti alle quali l’omelia attinge (padre Cesare Giraudo) e la dovuta attenzione per le modalità comunicative, per colmare la distanza tra la comunicazione omiletica e l’odierna comunicazione sociale (Pier Cesare Rivoltella).

L’editoriale, che raccoglie e rielabora la discussione avvenuta in Redazione, è di don Nico Dal Molin. Gli spunti di meditazione sono offerti da mons. Luigi Mansi, membro della Redazione, che riflette sul tema monografico a partire dalla “prima omelia” di Gesù nella sinagoga di Nazareth.

La rubrica Gesti di condivisione è stata affidata su questo numero al Direttore del Settimanale Diocesano di Trento; la rubrica Presbyteri digit@li è curata come sempre da don Giacomo Ruggeri; nello spazio dedicato all’Unione Apostolica del Clero inizia un percorso che ci consente di ripercorrere la preghiera salmica proposta dalla Liturgia delle Ore.

Ricordiamo che è ancora disponibile sul canale youtube di Presbyteri il nostro Convegno dedicato a I tempi del prete: tra dono e limite; gli Atti saranno pubblicati nella monografia numero 7 di quest’anno.

Come sempre vi invitiamo a far conoscere la Rivista e a fornirci consigli e suggerimenti anche per il futuro (segreteria@presbyteri.it).

Buona lettura!

La Redazione

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o i singoli articoli:

Editoriale (leggi gratis)

 

La grammatica dell’omelia (Dario VIVIAN)

L’omelia è un atto presidenziale all’interno dell’azione liturgica, dove il soggetto celebrante è l’assemblea radunata. Per questo l’atteggiamento di fondo dell’omileta non è di centrarsi su se stesso e nemmeno sulla predica che deve fare, ma sull’assemblea stessa. Ne deriva una fedeltà, che è insieme alle persone, alla loro vita, alla cultura e al linguaggio in cui si esprimono, e al mistero pasquale di Cristo morto e risorto, cuore di ogni celebrazione e dell’esistenza cristiana. L’omelia si fa pertanto eco della parola di Dio ed eco della vita, mediante un duplice alfabeto, che si unifica nelle parole dell’omileta attento ad una grammatica, di cui vengono delineati alcuni tratti.

 

L’omelia, una nota dell’accordo (Luigi GIRARDI)

L’omelia, come la nota di un accordo, viene compresa nel modo giusto se la si connette strettamente al suo contesto liturgico. Essa è un servizio alla Parola proclamata, perché possa essere accolta da tutti i fedeli; ma nell’omelia è la Parola stessa che deve poter compiere il suo servizio: rendere presente il Signore, per poterlo accogliere pienamente nella comunione eucaristica. L’ars praedicandi quindi deve essere compresa dentro l’ars celebrandi.

 

L’omelia: vietato improvvisare! (Cesare GIRAUDO)

La scarsità dei sacerdoti e il conseguente numero di impegni loro imposti rischiano di sottrarre tempo alla preparazione dell’omelia. Forte è la tentazione di improvvisarla.
Dopo un cenno alla cura che gli autori biblici e i Padri della Chiesa riservavano alle loro omelie, ci si sofferma sul munus docendi che, in forza dell’ordinazione ricevuta, prospetta la figura del sacerdote come doctor fidei e l’omelia come esercizio eminente del magistero presbiterale. Per aiutare l’omileta a gestire al meglio le tre letture previste per i giorni festivi si propongono alcune linee guida.

 

Pensiero, parole e stile (Pier Cesare RIVOLTELLA)

Il contributo muove da una panoramica delle principali “distanze” tra la comunicazione omiletica e l’odierna comunicazione sociale e poi indica tre percorsi di metodo per colmare questa distanza: lavorare sullo stile della predicazione, superare l’eccessiva centratura sulla parola e sui testi, aprirsi a una logica comunitaria in cui commento e applicazione della parola siano il risultato di un cammino comune tra il sacerdote e l’assemblea.

 

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EDITORIALE


don NICO DAL MOLIN

 

«Spesso, la domenica, quello dell’omelia è il momento in cui non riesco a stare concentrata. La tentazione di distrarsi è forte e se mi guardo intorno vedo che molte persone si trovano nella mia stessa situazione».

È un commento presente in una lettera inviata a “Famiglia Cristiana” qualche tempo fa, che interpreta bene una diffusa difficoltà nei confronti dell’omelia. Nell’immaginario collettivo l’omelia pare essere più un tempo di sopportazione che di ricarica rigenerante.

Eppure Papa Francesco, che è un esempio di semplicità e immediatezza, oltre che di brevità (cosa che non guasta mai), la ritiene così importante da averle dedicato uno spazio significativo nella Esortazione apostolica Evangelii gaudium, definendola come «conversazione di una madre che parla a suo figlio» (cfr. EG 139-141) e come capacità di dire «parole che fanno ardere il cuore» (cfr. EG 142-144).

La predica è davvero un tormento per i fedeli? Se volgiamo lo sguardo al passato la realtà non sembra migliore. Anche le parole di San Paolo hanno avuto un effetto narcotizzante sul povero Èutico – un ragazzo il cui nome sembra smentire ciò che gli capita – perché ascoltando l’Apostolo si addormentò e precipitò dal terzo piano. Nemmeno questa emergenza, secondo gli Atti, fece desistere Paolo dal parlare «ancora molto fino all’alba» (At 20,7-12).

Potemmo ricordare il poeta romano Gioacchino Belli che, nei Sonetti romaneschi, descrive l’atteggiamento di cardinali e prelati durante la cappella papale, con annessa omelia. «Li Cardinali sce stanno ariccorti, cor barbozzo inchiodato sur breviario, come ttanti cadaveri de morti. E nun ve danno ppiù sseggno de vita, sin che nun je s’accosta er caudatario a ddijje: “Eminentissimo, è ffinita”».

Non è un tema nuovo né originale, quello dell’omelia, ma questi mesi di pandemia e di esperienze celebrative “diverse” possono suggerire qualche utile riflessione.

 

Il peso delle parole

 

All’inizio del suo vangelo, Marco propone di condividere una giornata con Gesù a Cafarnao, in giorno di sabato (Mc 1,21-39). La prima scena si svolge nella sinagoga di Cafarnao, dove Gesù entra per insegnare. Sentendolo commentare il testo sacro, la gente rimane stupita dal modo con cui egli parla, «come uno che ha autorità, e non come gli scribi». Un’autorità che trova immediata conferma nella guarigione dell’uomo che porta in sé uno spirito immondo.

«Taci! Esci da lui!» – gli dice Gesù (v. 25). La sua parola, come ha il potere di chiamare ad essere suoi discepoli, o di spiegare il Libro sacro, ha anche il potere di sconfiggere lo spirito del male. Gli spiriti maligni, davanti a Gesù, escono allo scoperto, perché Lui rende evidente e palese il male che abita il cuore dell’uomo. Gesù non fa solo dei bei discorsi fine a se stessi, perché la sua parola dona liberazione, opera ciò che dice e aiuta a fare chiarezza nel cuore. È una spinta determinante per pensare liberamente, per provare emozioni autentiche, per cogliere il senso vero e non pregiudiziale delle persone, della realtà.

Le parole sono importanti: rivelano il cuore, dice Gesù. «La bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. L’uomo buono dal suo buon tesoro trae fuori cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori cose cattive» (Mt 12,34-35).

 

«Le parole sono pietre»: è il titolo di un libro di Carlo Levi. La forza delle pagine di Levi, talvolta piuttosto aspre, è concentrata in un’unica parola: amore. «L’amore per tutto quanto è umano, acutamente umano, vale a dire debole e doloroso, vale a dire nobile».

Ci sono parole che portiamo con noi fin da quando eravamo bambini. Parole dolci oppure terribili, che in quel momento non abbiamo neppure compreso pienamente, ma che ci hanno condizionato da allora in avanti. Ci sono le parole della maturità, delle speranze e dei successi, ma anche quelle delle frustrazioni e delle aspettative deluse che negli anni ci hanno rattristato e incupito. Ci sono le parole pronunciate a voce alta e quelle appena sussurrate, ci sono i pensieri quasi senza parole e le parole vuote e quasi senza pensieri.

La parola può essere micidiale come un’arma oppure scendere in noi come un balsamo curativo. Nessuna medicina è più potente di una parola di fiducia e di incoraggiamento per ridare speranza ad una persona che l’ha persa. Ci sono anche molte parole inutili che suscitano pensieri inutili e preoccupazioni senza motivo.

Scrive Pablo Neruda: «Tutto sta nella parola, tutta una idea cambia perché una parola è stata cambiata di posto, o perché un’altra si è seduta come una reginetta dentro una frase che non se l’aspettava e che le obbedì».

Le parole hanno il potere di trasmettere una visione diversa di ciò che abbiamo di fronte e, soprattutto, hanno la meravigliosa capacità di dare sollievo e serenità.

Lo stesso Sigmund Freud diceva che non esiste una medicina così efficace come lo sono alcune parole affettuose.

Per questo potrebbe essere utile fare un inventario delle parole che più utilizziamo nelle nostre omelie. Dicono molto di noi stessi, della sceneggiatura della nostra vita, di come viviamo la nostra esperienza di fede e di scelta del Signore Gesù.

«L’omelia può essere realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita» (EG 135).

 

La forza delle emozioni

 

«Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemia, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: “Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!”. Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge» (Ne 8,8-9).

È un testo che esprime in maniera immediata e visiva la carica emotiva con cui il popolo accompagna la lettura del Libro sacro. La capacità della Parola di toccare i nuclei più profondi nella vita delle persone, suscita emozioni, e le emozioni non solo coinvolgono affettivamente, ma anche trascinano e attraggono verso orizzonti inaspettati e sorprendenti.

Nonostante la nostra razionalità e abilità logica, siamo esseri profondamente emozionali, in cui le emozioni non sono una dimensione accessoria della nostra umanità, ma ne sono una parte integrante.

«Nell’omelia, la verità si accompagna alla bellezza e al bene. Non si tratta di verità astratte o di freddi sillogismi, perché si comunica anche la bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene» (EG 142).

I sentimenti e le emozioni vissute nei mesi di pandemia hanno avuto colori diversi. Dall’“andrà tutto bene” iniziale, sostenuto dalle canzoni sui balconi e sui terrazzi delle case, allo sconforto della seconda ondata, quando il tempo natalizio è stato segnato da un diffuso senso di malinconia e pesantezza. Dalla angoscia di vedere fortemente limitate le relazioni, in alcuni casi gravate da grande solitudine, al rifiorire della fiducia e della speranza intravvedendo la luce in fondo al tunnel.

Le emozioni sono una componente vitale della personalità umana. Possono divenire elementi potenti di motivazione, sia in positivo che in negativo e, a seconda della loro natura, ci rendono felici o tristi, timorosi o gioiosi.

Gli stessi personaggi biblici non sono stati immuni da sbalzi emozionali. Alcuni sono riusciti a gestirne il controllo, altri lo hanno smarrito, consentendo alle emozioni negative di guidarli verso comportamenti sbagliati. Può succedere che un grande dolore dia la spinta per cercare Dio più intensamente, come fonte ultima di aiuto e sostegno. Altre volte, invece, i conflitti interiori possono contribuire a far smarrire quasi del tutto la fede. Per questo è importante curare una sempre maggiore consapevolezza delle proprie emozioni e di come esse influenzano la propria esistenza.

I vangeli stessi ci presentano un Gesù profondamente umano, perché non nascondeva le sue emozioni. «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto» (Gv 11,33-35).

La lettera agli Ebrei esprime bene questa dimensione densa di umanità del Signore Gesù: «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15).

È affascinante e provocante anche il tema della «compassione» di Gesù, che rappresenta una dinamica fondamentale nella condivisione di un’omelia.

Gesù provava compassione non solo quando le persone erano prive delle necessità fisiche più elementari, ma anche quando si trovavano senza una guida, una direzione o uno scopo perché avvertiva i profondi bisogni spirituali delle persone.

«Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34).

Suggerisce Papa Francesco: «L’identità cristiana, che è quell’abbraccio battesimale che ci ha dato da piccoli il Padre, ci fa anelare, come figli prodighi – e prediletti in Maria – all’altro abbraccio, quello del Padre misericordioso che ci attende nella gloria» (EG 144). È consolante sentirsi avvolti da due abbracci.

 

La coerenza dei gesti

 

Il testo di Atti 15,22-31 può essere un esempio di coerenza tra parole e gesti. «Allora gli apostoli, gli anziani e tutta la Chiesa decisero di eleggere alcuni di loro e di inviarli ad Antiochia insieme a Paolo e Barnaba: Giuda chiamato Barsabba e Sila, uomini tenuti in grande considerazione tra i fratelli» (v. 22).

La lettera inviata dalla comunità di Gerusalemme ai fratelli di Antiochia, Siria e Cilicia è un piccolo capolavoro di comunione, essenzialità e incoraggiamento.

Le scelte comunicate sono state decise insieme a Gerusalemme, dalla comunità degli apostoli e degli anziani e anche nel consegnarle non ci si affida ad una sola voce, ma a più voci sintonizzate tra loro: Paolo e Barnaba, Giuda e Sila.

È un messaggio sobrio, semplice e diretto. L’essenzialità della comunicazione aiuta a comprenderne il senso e renderne facile la pratica. Lo abbiamo ben compreso in questi mesi: quanto più le cose sono essenziali e comunicate in modo semplice divengono comprensibili e motivanti.

Lo scritto si conclude con un incoraggiamento. È qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno e che dovrebbe essere il piccolo/grande patrimonio di ricchezza che ciascuno di noi porta con sé dopo una assemblea eucaristica, nell’incontro con il Signore Gesù fatto Parola donata e Pane spezzato.

Comunione, essenzialità e incoraggiamento: sono le stesse traiettorie che Gesù segue in quella collezione di discorsi che l’evangelista Giovanni pone nella cornice dell’ultima sera terrena di Gesù. Alla vigilia di ore di profonda sofferenza e solitudine, Gesù apre il segreto del cuore a quegli amici che aveva scelto.

«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). «Non vi chiamo più servi; ma vi ho chiamati amici» (Gv 15,15).

Sono parole essenziali, dense di emozione, che scendono dritte al cuore e che torneranno a galla dopo i loro tradimenti e le loro fughe. Anche loro, i discepoli del Signore, ripensando a quel momento, avranno compreso ciò che parafrasando Sant’Agostino potremmo riassumere in una espressione semplice e meravigliosa: «Noi non siamo stati scelti perché eravamo buoni, ma perché potessimo diventare buoni. E non potevamo diventarlo prima di questa scelta del Signore».

 

 

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