6 – 2018 Dal Sinodo sui giovani al Sinodo dei giovani

Editoriale


La frontiera giovani

Un tema controverso. Pareri discordi. Da una parte pessimismo e tanta preoccupazione, d’altra parte segni di speranza e visione aperta al futuro. Noi preti non siamo esenti da una problematica così viva come è quella che accompagna il mondo giovanile. Dedicare un numero della rivista a un dibattito sul tema è sembrato importante anche in coincidenza alla mobilitazione di idee e di esperienze che ha suscitato la convocazione del Sinodo sui giovani.
Come è stato sottolineato dai più, meglio è parlare a proposito del Sinodo dei giovani, ponendosi in ascolto dei loro pareri, delle loro testimonianze e delle loro esperienze. Una parte dei contributi raccolti dalla rivista presenta come una raccomandazione rivolta a curare nuovi metodi di ascolto e di accompagnamento del mondo giovanile.
È come riconoscere che anche la Chiesa non sia stata sufficientemente attenta e adeguata nel porsi di fronte ai cambiamenti che la società ha vissuto e sta vivendo. Attribuire ai giovani la responsabilità della crisi che presentano nei loro comportamenti, nelle scelte di vita e nel fallimento di loro iniziative è la via più facile e non bastano i capi di accusa che li sommergono, soprattutto da un mondo di adulti che ha alzato bandiera bianca.
È più corretto e onesto invece l’atteggiamento di chi si interroga sulle responsabilità che la società degli adulti ha sommato negli anni in cui si è venuto a determinare il più veloce cambiamento dei modelli di vita, a partire dagli anni dello sviluppo economico successivo alla fine della seconda guerra mondiale. Più evidente fra tutti il riferimento alla vita delle famiglie che hanno trasformato il loro modo di essere per tanti riconosciuti motivi, ma non sufficientemente affrontati. Chi ha risentito per esempio in modo più sensibile del fenomeno delle migrazioni interne e verso l’estero di tanti lavoratori, molte volte anche accompagnati dall’intera famiglia?
Anche evidente è stata la solitudine di mamme che hanno allevato figlioli senza la figura paterna, senza un adeguato sostegno di comunità educanti che potessero contribuire alla maturità affettiva delle nuove generazioni.
Il mutato costume di vita ha inciso profondamente anche sulle scelte di valore, che hanno subito un pesante condizionamento dalla pressione che i mezzi di comunicazione hanno determinato nel tessuto sociale, dalla famiglia alla scuola, fino alla vita delle stesse comunità ecclesiali.
Come è stato scelto dalla redazione della rivista, non era possibile addentrarsi in modo adeguato in una analisi sociologica del fenomeno, già da più parti affrontato in sedi scientifiche.
È parso opportuno dare parola ai due versanti della stessa realtà che vede da una parte gli educatori, compresi i preti, e dall’altra gli stessi giovani, con un campione certamente esiguo, ma eloquente per la sincerità e per la loro rappresentatività.
La solitudine del giovane… è il riconoscimento più immediato che richiama non solo alla responsabilità della famiglia, ma anche al non adeguato interesse che il mondo degli adulti presta alle esigenze di chi si trova in situazione di fragilità e di debolezza, come è lo stato di molti giovani. L’adulto non sempre è cosciente che il modello di vita offerto al giovane è frutto della stessa cultura costruita e diffusa dalle logiche volute dal sistema economico e consumistico, dove il riferimento valoriale è ben distante da una proposta di condivisione, di solidarietà e di relazioni felici.
Vengono suggeriti in un atteggiamento alternativo tanti espedienti per aiutare i giovani a superare le situazioni di sofferenza che oggi manifestano… dalla solitudine alla mancanza di speranza verso il futuro, dalla assuefazione a forme di dipendenza dalle droghe e dall’alcol alla difficoltà di stabilire relazioni affettive durature…
Molte di queste difficoltà di fatto risultano indotte da quello che gli stessi adulti hanno elaborato per sfruttare economicamente i giovani. La moda nell’abbigliamento, per esempio, è una delle sollecitazioni più pervasive, facendo leva sul bisogno di seguire ciò che fa “tendenza” e moda, nella ricerca di una sicurezza e di una propria identità, non basata sul proprio essere, ma sull’appartenenza al “gruppo”.
Il fenomeno della “movida” è un altro dei motivi di sbandamento collettivo, ben alimentato dal guadagno di chi gestisce certi locali, nella tempesta di una musica assordante, con il consumo manifesto di alcolici e, ben occultato, di sostanze stupefacenti. Il desiderio dei giovani di ritrovarsi, di incontrarsi, di vivere insieme viene sfruttato con l’offerta di una happy hour felice, al cui termine una intera piazza, come la piazza Verdi di Bologna, la vedi disseminata da un tappeto di bottiglie di birra e di alcolici.
Altro fenomeno che ricorre nella generazione dei più giovani è quello di sfidare il rischio nella velocità di auto e di moto, spesso guidate senza patente o usate senza responsabilità nel disprezzo di regole e di rispetto per la incolumità altrui. Anche in questi casi si verifica un vissuto vuoto di valori, alimentato dall’offerta che il denaro propone e dall’insistente pubblicità che affida l’affermazione della personalità a modelli sempre più attraenti di moto e di auto.
Fin dall’infanzia si costruisce nell’immaginario del ragazzo che cresce un mondo simbolico che non ha nulla di personale e che non corrisponde a quello che la stessa fantasia del bambino avrebbe potuto creare di proprio.
I contributi di informazione e di formazione che la rivista propone a proposito del mondo giovanile richiamano soprattutto alla responsabilità che hanno gli adulti nel processo educativo delle nuove generazioni. Un impegno che è veramente sociale nell’estensione etica che non mira solo alla felicità personale, ma che richiama a una dimensione del bene comune che i giovani rappresentano nella società.
È lodevole l’impegno che spendono molti insegnanti nella scuola, molti animatori nelle attività sportive, molti educatori nelle esperienze di arte e di teatro, di musica e di letteratura.
Non possono essere considerati percorsi eccezionali, ma doverosi progetti educativi che devono coinvolgere anche le istituzioni pubbliche e amministrative di un territorio.
Da condividere e apprezzare è la presenza di figure politiche che assumono delega amministrativa nei Comuni e addirittura in programmi regionali.
Fenomeni come il bullismo presentano altrimenti l’esito di un impoverimento di attenzione da parte degli educatori
per quel disagio giovanile che vede contrapposte personalità nell’età dello sviluppo, comunque deboli. Debole appare il giovane o la giovane vittime di esclusione, di violenza e di persecuzione.
Spesso sono le persone più timide, educate e che fanno fatica a socializzare. Ma debole e immatura è anche la personalità dell’aggressore che, pur di affermarsi, mette in campo le proprie energie distorte per offendere e colpire la propria vittima. Ancora più grave è l’azione del gruppo che deve e vuole significare una presunta superiorità. Dove sono gli educatori quando inizia un processo deviato, ben individuabile da comportamenti chiaramente passivi di una vittima e di evidente volontà persecutoria di un individuo o di un gruppo, nella frequenza scolastica o in altri ambienti frequentati da giovani?
A buona ragione viene raccomandata la costante presenza dell’adulto che sappia accompagnare i giovani, li sappia ascoltare, sia riferimento per eventuali sofferenze o esigenze anche devianti.
Una constatazione significativa è quella che vede ugualmente a rischio i giovani, sia che appartengano a una classe sociale agiata, sia che provengano da ambienti di povertà e di disagio, come le periferie oggi dimostrano.
Ancora una volta si può riconoscere il fallimento di un’offerta educativa dove rispetto a possibili modelli virtuosi hanno prevalso simboli e situazioni di violenza e di superficiale affermazione di sé.
Per non insistere nel sottolineare tutte le situazioni negative che la cronaca ci presenta ogni giorno e che non possiamo eludere, può essere interessante ritornare alla domanda di come aiutare i giovani a progredire nel loro sforzo di crescere sani e felici!
Si deve parlare proprio di “progressione personale” perché il processo educativo va accompagnato rispettando i tempi di crescita e la necessaria autonomia del giovane che deve poter scegliere liberamente quelli che possono essere i suoi obiettivi di vita. Appare sempre più urgente fare delle scelte negli strumenti educativi da adottare, che corrispondano alle mutate situazioni di vita e all’apporto che le stesse scienze umane e pedagogiche oggi offrono.
A questo punto conviene anche stabilire una onesta convergenza fra quello che la società civile e laica propone con quanto la Chiesa va sperimentando nella formulazione di progetti educativi e di pastorale giovanile.
Significative sono state le indicazioni suggerite per esempio nel Convegno ecclesiale di Firenze. È stato un vero e proprio progetto educativo, riferito in primo luogo alla maturazione di una evangelizzazione efficace e aggiornata, da assumere dalle comunità cristiane. Ma è anche possibile applicare una proposta simile alla necessaria progettazione di percorsi educativi, per la crescita nei giovani di una fede responsabile, per la loro presenza attiva nel contesto culturale di appartenenza e per una presenza attiva nelle problematiche sociali. Se espressione privilegiata della propria carità per un giovane possa essere anche la partecipazione alla vita politica e amministrativa del proprio territorio, la sollecitazione ad una seria progressione personale è più che urgente.
Che per un giovane sia necessario cominciare dai piedi, lo dice la prima parola risuonata a Firenze: USCIRE. Le testimonianze riportate nella rivista di giovani che si dichiarano soddisfatti di un proprio cammino, culturale, sociale a anche di fede, attestano che la loro crescita è nata proprio uscendo dalle proprie sicurezze, incontrando attraverso ESPERIENZE significative luoghi e persone che avevano qualcosa da dire.
Più che le parole per i giovani contano i fatti e di esperienze positive, spesso anche eroiche, la nostra società e la Chiesa ne offrono diverse. Sono occasioni in cui i giovani non possono solo specchiare il loro desiderio di pace e di giustizia. Ancora più efficace può essere sperimentare attraverso il servizio quello che la seconda parola di Firenze indicava: ANNUNCIARE. Si tratta di sperimentare fiducia, di sperimentare anche commozione quando si scopre che sono in tanti impegnati nel sollevare chi è caduto, nel soccorrere chi soffre, nel lottare per cambiare e rimuovere le cause dell’ingiustizia. È il terreno privilegiato dei giovani. Cambiano le loro categorie ammuffite dai giochi borghesi o le provocazioni della malavita e della corruzione.
Ai giovani piace anche sporcarsi, quando ci si butta nell’avvicinare situazioni di emergenza. Ricordo i giovani che accorsero per primi quando ci fu l’alluvione di Firenze nel ‘66 o al terremoto dell’Irpinia nell’ ‘80… non si risparmiavano nella fatica e nell’ABITARE con chi aveva perso tutto.
Non si può stare a guardare, non si può solo discutere o azzardare teorie, né può bastare anche un pronunciamento di dottrina per elevato che sia: condividere è la forma educativa migliore.
Il giovane è anche capace di progettare, lo dimostrano recenti esperienze di imprenditoria giovanile, a patto che gli adulti possessori di mezzi e di corretti ordinamenti giuridici accompagnino le migliori intenzioni e realizzazioni.
Bene è stato sottolineato a Firenze che EDUCARE è una missione permanente. Significa aiutare a crescere, a cercare il meglio, a esprimere ciò che ciascuno possiede nelle proprie capacità e potenzialità. Potremmo affermare che i giovani possono crescere anche quando si scoprono essi stessi educatori nel senso che si appassionano a far crescere i diritti di cultura e di partecipazione. Quanti sono i giovani che si impegnano loro stessi come educatori e accompagnatori dei più piccoli!
Capitolo più difficile e sempre da rinnovare è quello che riguarda la fede e la presenza ecclesiale dei giovani. I dati statistici possono far pensare a una continua fuga e al disinteresse di tutto ciò che rappresenta l’esperienza di fede. Quanta responsabilità ancora viviamo nel proporre percorsi di iniziazione cristiana e di avvicinamento ai sacramenti che lambiscono superficialmente le coscienze e che non formano a vivere con continuità una personale spiritualità. Ancora più evidente è l’assenza di giovani in esperienze di comunità, a parte una esigua presenza nei movimenti e nella associazioni tradizionali.
Possiamo dire che tutto è perduto?
Le testimonianze di chi è giunto ad esprimere con convinzione una propria adesione al messaggio evangelico e un’esperienza interiore basata sulla fede nella presenza dello Spirito del Risorto ci impegnano a vivere quella scommessa che Gesù stesso propose ai suoi apostoli più vicini: TRASFIGURARE.
In effetti Gesù si è sottratto a una evidenza che potesse accompagnare la storia umana con la sua stessa presenza, uomo come noi seppure Risorto. Ha indicato ai suoi il cammino della missione, dell’andare oltre i confini, dell’accogliere e dell’accettare anche i diversi. Si è fidato in effetti che il suo volto potesse essere riconosciuto nel più povero quando è avvicinato con amore, nel malato quando viene curato e consolato, in chi è escluso quando si lotta per la giustizia, nel perseguitato quando si fa la scelta della pace e del disarmo….
I giovani sanno riconoscere nel volto di chi soffre il volto di Gesù, quando sperimentano nel servizio tutta l’energia che la loro passione giovanile e la presenza dello Spirito fa superare la “figura umana” per andare oltre e assaporare la gioia di portare frutti di amore, di compassione e di trasformazione del dolore in solidarietà e pace.

p. FABRIZIO VALLETTI sj