6 -2020

Carissimi lettori,

il tema di questa monografia che ci accompagnerà lungo l’estate ci provoca sia nella nostra identità umana che nella nostra vita pastorale. Se il sacramento ci ha fatto “presbiteri”, possiamo chiederci se la vita ci ha reso “adulti”, in grado di stare nella complessità delle situazioni in maniera generativa e feconda, responsabile e libera. Oggi più che mai, in questo tempo complesso e nuovo, c’è bisogno di persone adulte, che affrontino le sfide della vita con coraggio, fedeltà e competenza e aiutino chi fa più fatica a crescere e camminare.

Anche il questo numero, dopo l’apertura dell’Editoriale a cura di don Nico Dal Molin, abbiamo scelto di affrontare il tema sotto quattro prospettive diverse. La professoressa Paola Milani ci guida nel comprendere che cosa significa educare e diventare adulti secondo la scienza, nell’attuale contesto culturale e antropologico. Don Giovanni Frausini, nostro membro di Redazione, attinge alla lex orandi per mostrare come, oltre all’essenziale rapporto con Dio, il ministero abbia bisogno di relazioni segnate da un atteggiamento di responsabilità, passione e fedeltà: una vita da adulti. Don Dario Vivian ci parla del far crescere come un’arte, che in quanto tale necessita di competenza e rigore, ma anche di passione e di “innamoramento”, ricordando che il ministero dei presbiteri è finalizzato alla crescita della comunità cristiana, al “noi” della fede. Abbiamo infine chiesto a don Federico Emaldi di raccontarci quando, nella sua esperienza personale e ministeriale, si è sentito adulto, quali relazioni e situazioni lo hanno fatto crescere.

Gli spunti di meditazione sono offerti in questo numero da don Stefano Zeni; mentre nel nostro cammino sulla via pulchritudinis siamo accompagnati dalla professoressa Maria Mascheretti che ci aiuta a riflettere sulla bellezza della poesia. La rubrica dedicata all’ars celebrandi è sempre di Enrico Maria Beraudo e le pagine UAC a cura di don Giuseppe Costantino Zito.

Auguriamo a tutti voi una buona estate, da “preti adulti” che vivono le sfide di questo tempo con fede, speranza, amore.

Vi ricordiamo infine come sempre che siamo disponibili a ricevere vostri suggerimenti o considerazioni, da inviare via mail (segreteria@presbyteri.it) o nella sezione commenti del nostro sito (www.presbyteri.it).

Buona lettura!

La Redazione

 

EDITORIALE


don NICO DAL MOLIN

 

Nei giorni appena trascorsi di isolamento nelle nostre case per l’emergenza sanitaria del Covid-19, sono stato molto colpito dal discorso pronunciato da Frank-Walter Steinmeier, Presidente della Repubblica federale tedesca, in occasione della Pasqua di quest’anno.
Ci troviamo davanti a un bivio; e già nella crisi albeggiano le due direzioni possibili che possiamo percorrere. O ciascuno per sé, sgomitando e spingendo per mettere al sicuro le proprie cose. Oppure quell’impegno per gli altri e per la società che si è improvvisamente risvegliato. Saremo capaci di custodire la creatività che proprio ora sta crescendo insieme alla disponibilità ad aiutare altri? Nel mondo ci metteremo in cerca insieme di soluzioni comuni, o ricadremo nell’indifferenza e nell’individualismo?
Non sono parole pronunciate da Papa Francesco o da qualche altro significativo leader religioso. Sono parole “laiche” eppure profondamente dense di umanità e di una visione alta della vita. Questo dovrebbe essere specifico dell’essere una persona “adulta”, qualunque sia il suo credo religioso, la sua appartenenza sociale e culturale, la sua scelta vocazionale o professionale.
Come essere “presbiteri adulti”?
La radice etimologica della parola “adulto” deriva dal verbo latino adolescere, che significa “crescere”. Adulto quindi è colui che è cresciuto o che dovrebbe crescere per aggiungere la maturità. Ma quale maturità? È sempre più evidente che ciò che definiamo “maturità” non è un punto di arrivo stabile e irreversibile, dai contenuti ben determinati e precisi. È piuttosto un processo in divenire orientato ad una evoluzione, ma anche ad una, anzi, a molte possibili regressioni. Già da molti anni, ormai, la letteratura scientifica internazionale è concorde nel ritenere che l’età adulta non è solo una questione anagrafica, e che essa si rivela sempre più “reversibile”.
Reversibilità della adultità: è un paradosso solo apparente, profondamente incarnato nelle storie di chi, sebbene anagraficamente adulto, si ritrova travolto da eventi inaspettati, spesso repentini e traumatici, a partire dai quali doversi costruire e ri-costruire in un modo nuovo di immaginare la propria vita.
La spinta ad un processo continuo di crescita è una opportunità di fertilità e generatività che si contrappone a una dolorosa sterilità. È una occasione di risveglio e di rinascita nel contesto di ciò che è avviato ad affievolirsi e a spegnersi. Vivere da persone adulte significa fare costante e paziente esperienza di «accoglienza».
Accoglienza della contraddizione non come sintomo di patologia ma come possibilità di creazione; accoglienza dei paradossi e dei grovigli interiori che ci appartengono in quanto viventi; accoglienza della impossibilità di imbrigliare nelle maglie del nostro bisogno di definire-controllare-predire la complessità di tutto ciò che è umano. L’esperienza della pandemia, da cui stiamo faticosamente rimettendoci in piedi, potrebbe averci insegnato molto, sotto questo profilo, e credo che tanto altro ci aiuterà ancora a scoprire.

Una stagione di generatività e interiorizzazione
Già la parola “presbitero” implica un cammino verso stili di equilibrio e saggezza di vita che, lo sappiamo bene, non possono essere assunti come scontati. La vita adulta porta con sé molte responsabilità e, con esse, il rischio di farsi travolgere da esse.
C’è un passaggio da compiere: dall’idealismo ricco di quelle aspettative che accompagnano i primi anni di ministero presbiterale ad un realismo sano, concreto, consapevole che ricolloca il proprio pensare e il proprio agire su uno sfondo diverso.
Lo psicologo Erik Erikson identifica questa fase della esistenza come «la sfida della generatività», e la definisce come «sollecitudine per ciò che si è generato». Essa sa svilupparsi nella capacità di distacco, cioè nel saper prendersi cura di chi si è generato, permettendogli di seguire il proprio cammino; nell’incoraggiarlo, nel dare fiducia soprattutto quando le vie intraprese si indirizzano al di fuori dei propri progetti e del proprio controllo.
«Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri. Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti» (K. Gibran). Questa è anche la «stagione della interiorità»: il prete adulto è chiamato a ritornare su se stesso per fare un bilancio, per riequilibrare le proprie energie, forse anche per un cambio, non sempre indolore, di prospettive e di scelte.
L’esito positivo del ritorno a se stessi è una esperienza più radicata e profonda di interiorità. È la possibilità di recuperare l’unità di se stessi con maggiore serenità e consapevolezza. «E quando non potete più abitare nella solitudine del cuore, vivete nelle labbra, e il suono è distrazione e passatempo.E in molti vostri discorsi, il pensiero è quasi ucciso. Perché il pensiero è un uccello dell’aria, che in una gabbia di parole può spiegare le ali, ma non può certo volare» (K.Gibran).

 

Riconciliazione con se stessi
Il presbitero adulto è chiamato ad accogliere chi a lui consegna, con pudore e fiducia, lo scrigno prezioso della propria vita, con le proprie angosce, ferite e miserie. Ricordando il titolo di un libro che ha accompagnato la formazione di molti tra noi, il prete adulto è chiamato ad essere «un guaritore ferito».
Egli può aiutare un cammino di guarigione perché toglie l’illusione menzognera che ci si possa dare reciprocamente la completezza. Non può annullare dolore e sofferenza, ma può invitare l’altro a spartirla dopo averla riconosciuta. Il presbitero adulto non è un medico che possa togliere il dolore, ma piuttosto aiuta chi a lui si confida a penetrare nel mistero del dolore per poterlo condividere. Un dolore condiviso non è più paralizzante, ma mobilitante. Questo è il nucleo del «ministero della consolazione».
Per questo un presbitero adulto è chiamato a
• riconciliarsi con il proprio “limite”: la vita non è solo possibilità; essa può cadere nel vortice della irrequietezza e dello smarrimento interiore. Da una parte c’è l’accettazione  della propria debolezza e vulnerabilità, dall’altra il coraggio dell’umiltà nell’ammettere con se stessi: «Non sei onnipotente». Ed è un duro colpo al nostro narcisismo primitivo. «Tutto è vanità, soffio, vapore che si dissolve… tutto è hébel» (cfr. Qo 1,2). Anche il salmista rilancia questa consapevolezza: «Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni e
la mia esistenza davanti a te è un nulla. Solo un soffio è ogni uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa; solo un soffio che si agita» (Sal 38,6-7a).
• Riconciliarsi con l’impegno di un Amore fedele: è il tempo tratteggiato dal Cantico dei Cantici. Ai nostri giorni la fedeltà è un rischio difficile da assumere. Richiede una crescita e una immersione nella intimità profonda delle relazioni – almeno di alcune fra esse – che si fa unità e semplificazione di vita.
• Riconciliarsi con il proprio declino: è il passaggio cruciale che Charles Péguy definisce: «la vertigine sulla via del ritorno». In questa fase di vita adulta c’è una rivisitazione della propria esistenza, ridefinendola alla luce di un nuovo quadro di riferimento delle priorità. È la via per giungere alla libertà del cuore, che permette uno sguardo nuovo sulla realtà, capace di relativizzarla.

Il coraggio di una fede sapienziale
Era l’11 ottobre 2011 quando Papa Benedetto XVI, con il Motu proprio Porta fidei, proponeva alla Chiesa di vivere l’anno della fede. Fin da quando era giovane teologo, Papa Benedetto aveva intuito che il grande problema della Chiesa ai nostri giorni è il tema della fede. Una fede che ha perso slancio, radici robuste che affondano nella vita della  comunità cristiana, forza di motivazione e convinzione. Questo è un problema che tocca in profondità anche ciascuno di noi, nella propria vita di presbitero.
Questa è la sfida pastorale prioritaria. I discepoli di Cristo sono chiamati a far rinascere in sé stessi e negli altri la nostalgia di Dio e la gioia di viverlo e di testimoniarlo, a partire dalla domanda sempre molto personale: «Perché credo?». Occorre far riscoprire la bellezza e l’attualità della fede come orientamento costante, anche delle scelte più semplici, che conduce all’unità profonda della persona rendendola giusta, operosa, benefica, buona.
È richiesto un passaggio di prospettiva e di impostazione nella vita della comunità cristiana ed è una sfida che, dopo i mesi vissuti nell’esperienza della pandemia, si propone con ancora più forza e attualità. È il passaggio da una «pastorale organizzativa» – a cui di fatto siamo abituati e forse anche rassicurati – ad una «pastorale generativa», che  richiede una vita di fede non statica e di routine, ma propositiva, dinamica, capace di rimettersi in questione, di rimotivarsi, di rispondere alle domande di senso che ci portiamo dentro.

È la sfida di una «fede sapienziale».
La fede sapienziale è chiamata ad abitare tutti gli ambiti della vita umana. Dalla immersione nelle realtà concrete e quotidiane può trarre nuova vitalità e incisività, scuotendo comunità spesso assopite e in affanno, nella consapevolezza rinnovata che sotto la cenere c’è un fuoco da riattizzare e ravvivare. Ci può aiutare in questo cammino l’icona del pellegrino, dell’homo viator, come lo definisce Gabriel Marcel (1944).
L’homo viator non è un naufrago disperso, un malinconico randagio o un vagabondo nomade e smemorato. «Se l’uomo è essenzialmente un viandante, ciò significa che egli è in cammino verso una meta che vede e non vede. Egli non può perdere questo sprone, senza restare immobile e morire» (G. Marcel).
La fede sapienziale rimette al centro la consapevolezza grata e stupita dell’essere figli: figli accolti, amati, benedetti. Una consapevolezza che va vissuta nella prospettiva della tenerezza, per recuperare e rendere vitali quei momenti della propria storia relazionale che sono segnati da esperienze di affetto, fiducia e positività.
Tuttavia questa consapevolezza può essere vissuta anche come conflitto, come ferita non rimarginata, come delusione e nostalgia, perché alle spalle sempre più di frequente ci sono storie di relazioni segnate da famiglie confuse e frantumate, da padri e madri più preoccupati di sé stessi che del benessere profondo e globale dei propri figli.
La fede sapienziale aiuta a recuperare la dimensione vocazionale della vita, come orizzonte di scelta, di senso e significato, come risposta alle domande di tanti giovani che si rivolgono a noi interrogandoci su dolore e amore, paura e morte.
È la richiesta di sempre che potrebbe essere così riassunta: «Posso io essere felice?» Posso cogliere nella mia vita «quel dolce pomo che per tanti rami / cercando va la cura de’ mortali?» (Dante Alighieri).
Come realizzare questo itinerario alla «fede sapienziale»?
Ci è ancora di aiuto e incoraggiamento la parola di Papa Benedetto XVI: Per essere ministri al servizio del Vangelo, è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione teologica e pastorale, ma è ancor più necessaria quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore” con Cristo.

 

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