Carissimi lettori,
vi raggiungiamo all’inizio del nuovo anno pastorale, con tutte le sue sfide, speranze e inquietudini, con un tema non certo nuovo, ma che vorremmo vedere sotto una nuova prospettiva.
Torniamo dunque a parlare di vocazioni e di pastorale vocazionale, partendo proprio dalle esperienze in atto, ma per offrire una riflessione teologica sulla vocazione, e sulla vocazione all’ordine sacro in particolare, mettendo a fuoco il ruolo centrale del presbiterio nell’animare la comunità cristiana nel discernere e riconoscere le vocazioni. Troppe volte infatti la pastorale vocazionale è stata delegata a singoli preti, perdendo il respiro ecclesiale e dimenticando che è il presbiterio intero il “grembo” che genera e che accoglie i nuovi ordinati.
Dopo l’apertura dell’Editoriale a cura di don Nico Dal Molin, sarà don Mario Aversano a guidarci in un percorso di natura ecclesiologica e pastorale per indagare quale modello di Chiesa emerge dalle riflessioni e dalle pratiche che si possono riscontrare oggi, al fine di prospettare una visione di comunità più inquieta, missionaria e quindi profetica e generativa.
Don Tullio Citrini parte dall’immutata origine trinitaria di ogni chiamata per ripercorrere tempi e modi in cui la Chiesa ha conosciuto l’intreccio delle varie vocazioni, in modo anche molto diversificato e proiettato verso una prospettiva missionaria dell’intero popolo di Dio. Don Roberto Repole offre un contributo che mette in evidenza anche le fatiche teologiche nel pensare la realtà del presbiterio, nella convinzione che una chiarificazione teologica può aiutare a renderlo più generativo, anche sul piano vocazionale, indicando inoltre suggerimenti per immaginare dei presbitèri che possano avere, nell’oggi, la possibilità di essere fecondi.
Gli spunti di meditazione sono offerti in questo numero da don Alfonso Lettieri; a seguire ripubblichiamo un interessante contributo apparso sulla rivista Vocazioni nel 2014, a firma di mons. Mario Delpini, allora Vicario Generale della Diocesi di Milano, e oggi Arcivescovo. Nel nostro cammino sulla Via pulchritudinis siamo accompagnati dalla professoressa Marta Dalmaso che ci aiuta a riflettere sulla bellezza dello studio. La rubrica dedicata all’ars celebrandi è sempre di Enrico Maria Beraudo, sulle tracce della nuova edizione del Messale, e le pagine UAC a cura di don Giuseppe Costantino Zito.
Il tema del presbiterio è anche al centro del fascicolo degli Atti del nostro primo Convegno, tenuto il 6 maggio 2019, col titolo: “Ne costituì Dodici” (Mc 3,14). Il presbiterio nell’esperienza della formazione del clero. Finalmente possiamo offrirlo alla lettura, in allegato a questo numero, invitandovi a farci sapere se desiderate riceverne altre copie.
Auguriamo a tutti voi una buona ripresa, nella comunione che è garanzia di fecondità. Vi ricordiamo infine come sempre che siamo disponibili a ricevere vostri suggerimenti o considerazioni, da inviare via mail (segreteria@presbyteri.it) o nella sezione commenti del nostro sito (www.presbyteri.it).
Buona lettura!
La Redazione
EDITORIALE
don NICO DAL MOLIN
La fase di riflessione che si è aperta nel contesto ecclesiale e nella società civile dopo i picchi di emergenza del Covid-19, può offrirci una coraggiosa opportunità di verifica e discernimento su molti aspetti dell’impegno pastorale, che già si rivelavano problematici e precari. Pensiamo ad una catechesi che fatica a proporsi come cammino di iniziazione cristiana; a celebrazioni liturgiche talvolta asettiche e ripetitive, non sempre in grado di rimettere in circolo la vita della gente; ad una programmazione pastorale sovraccaricata di eventi, talvolta in competizione tra loro.
Il tema del “discernimento” è stato riproposto con forza, a tutta la Chiesa, da Papa Francesco, in particolare quando è stato annunciato il Sinodo sui giovani. Era il 6 ottobre 2016. Si è così aperto un cantiere vivace e creativo di riflessioni, esperienze, proposte non solo connesse alla pastorale giovanile e vocazionale, ma legate a tutta la dimensione di annuncio del Vangelo e di cura della comunità cristiana.
La rivista Presbyteri, dedicando al Sinodo sui giovani un numero della programmazione annuale (5/2020), si è proposta di rifocalizzare l’attenzione sul patrimonio che il Sinodo stesso ha lasciato come contenuti e come metodologia pastorale, e su ciò che i giovani rappresentano per il futuro della chiesa.
Nella riflessione proposta da don Michele Falabretti, alla luce del Documento finale e della Esortazione apostolica del Sinodo (Christus vivit), c’è un passaggio che risulta determinante anche in chiave vocazionale: «I giovani tendono a mettere alla prova la chiesa adulta nella sua capacità di trasmettere la visione cristiana della vita».
In questi mesi spesso è stato detto, con convinzione o forse con un filo di scaramanzia, che siamo tutti sulla stessa barca e che solo insieme ci si può salvare. Sono anche le parole di Papa Francesco nella indimenticabile veglia del 27 marzo 2020.
Non siamo ancora completamente al di là del guado per vivere con lucidità e chiarezza “il tempo della memoria”. È indispensabile, però, non archiviare troppo facilmente questo tempo, come se nulla fosse avvenuto. Non è realistico, non è possibile considerare solo una parentesi ciò che insieme abbiamo sperimentato, vissuto, sofferto.
Costruire e sognare
Nel suo originale libro di testimonianze Non è una parentesi, il Vescovo di Pinerolo Mons. Derio Olivero scrive: «Non possiamo tornare alla società e alla Chiesa di prima. Dobbiamo ricostruire, anzi “costruire sognando” una nuova società e una nuova Chiesa».
«Costruire sognando»: è stato il messaggio di uno tra gli ultimi
post del musicista Ezio Bosso, recentemente scomparso: «Il domani, quello col sole vero, arriva. Perché domani non dovremo ricostruire, ma costruire e costruendo sognare. Perché rinascere vuole dire costruire, insieme uno per uno» (14 marzo 2020).
C’è una domanda che non può entrare solo nel “libro dei sogni”, ma che va ascritta tra le reali priorità di un cammino ecclesiale e di un progetto pastorale che insieme ci sforziamo di immaginare: “Che cosa significa, oggi, per la nostra Chiesa, divenire comunità vocazionale e missionaria? Quali sono le risorse già presenti a cui poter attingere e quali le prospettive verso cui muoverci insieme?”.
Le idee creative non nascono dal nulla, ma imparando a rimodellare ciò che già abbiamo e adattandolo in maniera diversa, e quindi nuova, sulla base di nuovi contesti ed esperienze, di ulteriori sensibilità che la vita stessa fa maturare in noi. «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
È l’invito ad attingere alla propria cassetta degli attrezzi per immaginare una modalità nuova e soprattutto «condivisa» di proporre l’annuncio vocazionale. Significa valorizzare ciò che abbiamo, rielaborandolo alla luce di un contesto ecclesiale che già era profondamente mutato, ed ora lo è ancor più, non solo per i giovani ma anche per un mondo adulto sempre più incerto e ripiegato su se stesso.
Le domande del cuore umano sono quelle di sempre, ma i codici di comunicazione e di percezione sono profondamente mutati. Come maturare uno sguardo capace di “andare oltre, più in là” a quanto sin qui vissuto e praticato?
Più domande che risposte
Nel contesto ecclesiale e pastorale delle nostre chiese locali, le proposte di pastorale giovanile e vocazionale di solito sono parecchie e bene articolate.
È inevitabile allora chiedersi perché tutta questa energia messa in campo abbia una forza di impatto e coinvolgimento così ridotta rispetto al passato.
Cosa è venuto ad affievolirsi o a mancare nella carica di attrazione, di profezia che ha sempre contraddistinto la pastorale giovanile e vocazionale delle nostre chiese?
Guardando con un minimo di disincanto – anche se profondamente solidale – all’attuale annuncio vocazionale, notiamo che le proposte collaudate e perfezionate nel tempo, sono modellate su un modo di concepire la “scelta di vita” associato ai parametri di un mondo adulto, che non sembra in grado di interfacciarsi con la sensibilità dei giovani oggi. Ancor più che in passato le distanze intergenerazionali si sono ampliate e i ventenni/trentenni di oggi sono in difficoltà nell’identificarsi con i criteri che definivano la “scelta di vita” per gli adulti con i quali si confrontano.
Tra questi mondi ci sono letture non solo differenti, ma effettivamente lontane, nell’ambito delle relazioni, della affettività e sessualità; nell’ottica del lavoro e della scansione del tempo; nelle priorità che ritmano attese, sogni, desideri; nelle stesse incertezze e paure che condizionano lo sguardo sul futuro. L’attuale immagine vocazionale consegnata ai giovani interpreta davvero le loro categorie e il loro vissuto profondo?
Gran parte delle scelte che i giovani vivono oggi (per es. la precarietà del lavoro, delle relazioni, di tempi e spazi in cui vivere) sono spesso connesse a modelli part time.
Non è facile entrare in una opzione di «reversibilità», che oggi è un codice di riferimento comune. La preoccupazione di tanti giovani è bene espressa da espressioni del tipo: «Non voglio precludermi altre vie».
Le immagini di famiglia, di lavoro, di amicizia e di tutto ciò che definiamo come «impegno responsabile e costante» sono legate ad esperienze che hanno codici di riferimento e di interpretazione molto diversi.
La conseguenza è che la stessa proposta vocazionale possa (o forse debba?) essere meglio vissuta come un open space, uno spazio aperto in cui imparare a collocarsi, progressivamente e lentamente, in attesa di un passaggio successivo. Ciò richiede un profondo riposizionamento dei cammini vocazionali.
La latente nostalgia dei … numeri
L’approccio vocazionale sembra ancora legato ad una preoccupazione latente, non sempre riconosciuta ed espressa: creare un bacino di “risorse umane” per la chiesa di domani.
Viene da chiedersi: ma la chiesa che noi stiamo sperimentando e proponendo oggi sarà anche quella di domani? Di un domani non remoto, ma già immediatamente dietro l’angolo, vista l’accelerazione dei tempi.
Nell’annuncio vocazionale sono sempre importanti – ma non più sufficienti – quei percorsi che mettono al centro la persona, con la propria identità da definire e le risorse da sdoganare.
Oggi è essenziale aggiungere un ulteriore passaggio: aiutare i giovani – ma vale anche per gli adulti – ad uscire dalla propria autoreferenzialità, a passare «dall’io a Dio».
Ecco la svolta: smettere di orbitare attorno al proprio io, alle delusioni del passato, agli ideali non realizzati, a tante cose brutte che sono accadute nella propria vita. Tante volte noi siamo portati a orbitare, orbitare… Lasciare quello e andare avanti guardando alla realtà più grande e vera della vita: Gesù è vivo, Gesù mi ama. Questa è la realtà più grande. E io posso fare qualcosa per gli altri. È una bella realtà, positiva, solare, bella! L’inversione di marcia è questa: passare dai pensieri sul mio io alla realtà del mio Dio; passare – con un altro gioco di parole – dai “se” al “sì”. Dai “se” al “sì”.
Questo può aiutare a rimettere al centro una riflessione e una prassi sul NOI della fede, che consenta di recuperare il primato delle relazioni, contro ogni forma di autoreferenzialità o di iperattivismo pastorale, perché attraversate in modo prioritario dalla relazione con Gesù e il suo vangelo.
Alla domenica, nella Santa Messa, recitando il «Credo», noi ci esprimiamo in prima persona, ma confessiamo comunitariamente l’unica fede della Chiesa. Quel «credo» pronunciato singolarmente si unisce a quello di un immenso coro nel tempo e nello spazio, in cui ciascuno contribuisce, per così dire, ad una concorde polifonia nella fede.
Un rischio che percepiamo ricorrente nel nostro immaginario ecclesiale è quello di concepire la pastorale vocazionale come una pastorale “per pochi”, per quelli che frequentano già, che possiedono già l’abbicì della fede, insomma per i vicini. A loro, eventualmente, si può rivolgere l’invito ad una sequela più radicale, aprendosi a scelte di vita importanti.
La logica evangelica, però, si sviluppa in un altro modo. L’invito all’incontro e alla sequela del Signore è rivolto a tutti, non solo ai vicini. Certo, le modalità debbono tener conto delle condizioni e della situazione delle persone; ma l’annuncio non può perdere il suo specifico, cioè l’incontro con Dio che ha il volto di Gesù Cristo.
Talvolta l’impressione è che manchi a noi (preti, credenti, comunità) questa libertà dell’annuncio, la libertà della fede, di chi, a partire dal proprio personale incontro con Dio, non teme di farne motivo di condivisione.
E ciò interpella direttamente il modo di essere e vivere come «presbiterio». «Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16).
Processi discontinui
Il nostro orizzonte è abitato da una logica di continuità. In realtà, l’esperienza della crescita umana procede nella discontinuità. Nonostante la routine che caratterizza la nostra quotidianità, essa rimane esposta a tutta una serie di «interruzioni» e fratture.
Secondo Christoph Theobald, le «interruzioni» del quotidiano si possono ricondurre a tre momenti decisivi. Le «crisi», più o meno pesanti, che si vivono tra le singole fasi psico-fisiche o le diverse tappe delle nostre storie di vita, quando un precario equilibrio raggiunto mostra il suo limite e occorre trovarne un altro.
I progetti aperti al futuro che portiamo avanti, spesso con passione, nel corso della nostra storia di vita. Mentre viviamo le varie fasi biologiche della nostra esistenza in maniera piuttosto passiva, i nostri progetti dipendono dalla nostra immaginazione, dai nostri desideri. Anche in questo ambito ci sono delle «interruzioni». Non solo il fallimento di un progetto, ma anche la sua riuscita, oppure l’accadere di qualcosa che supera ogni nostra attesa.
I molti, piccoli o grandi eventi che «interrompono» il corso della nostra vita: un incontro, l’innamoramento, la realizzazione di un sogno, una malattia e così via. Si tratta di molti avvenimenti occasionali che spesso danno una piega inaspettata
alle nostre storie personali.
Anche le storie dei personaggi biblici non sono lineari. E il Vangelo ci lascia aperte tante possibilità, nella logica costante del «se vuoi».
Per questo, un cammino di ricerca vocazionale è chiamato a dare strumenti per imparare a rileggere i passaggi, le interruzioni della propria vita, come momenti privilegiati per fare verità su sé stessi e per aprirci al dono della Grazia di Dio.
Come essere compagni di viaggio nelle fratture e nelle interruzioni della vita, positive o negative che siano? E come vivere la riscoperta della vita come un «dono di rinascita» in ognuno di questi passaggi cruciali?
Mi torna alla mente il romanzo di Luigi Pirandello Uno, nessuno e centomila. Nelle ultime pagine del romanzo incontriamo il protagonista, Vitangelo Moscarda, nell’ospizio di mendicità, alla cui costruzione ha contribuito con i suoi averi. È giunto alla piena consapevolezza che la vita, nel suo continuo fluire, «non conclude». Dunque, l’unico modo per vivere in ogni istante è vivere attimo per attimo la vita, rinascendo continuamente in modo diverso.
La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
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