Carissimi lettori,
possiamo immaginare che molti di voi siano tra coloro che abbiamo chiamato “preti dell’età di mezzo”, ai quali dedichiamo in particolare questa monografia. Si parla spesso dell’attenzione ai “preti giovani”, o ai “preti anziani”, ma forse poco ci si confronta sui bisogni specifici di quella fascia di presbiteri che si trova probabilmente a sostenere il maggior carico pastorale, perché sufficientemente “matura” per vivere con responsabilità gli impegni affidati e ancora “forte” a sufficienza per reggerne il peso. Come Redazione abbiamo colto il rischio che tanti preti generosi siano consumati da un sovraccarico e non trovino nelle realtà diocesane una cura specifica e adatta a questa fase dell’esistenza.
Dopo l’apertura dell’Editoriale a cura di don Nico Dal Molin, Paolo Cortellessa leggerà per noi numeri e dati relativi ai 15 mila presbiteri che oggi in Italia hanno tra i 40 e i 65 anni; don Emilio Gnani toccherà alcuni temi importanti per evidenziare come la crisi che spesso accompagna questa fase della vita può diventare occasione di trasformazione e di crescita. Nel terzo contributo abbiamo coinvolto più voci per guardare ai presbiteri dell’età di mezzo da angolature diverse: don Gianni Massaro ci racconta in prima persona come sta vivendo questo tempo, mentre don Marco Ferrari e don Renato Tamanini si confrontano con i confratelli “adulti” rispettivamente a partire dalla generazione successiva e da quella precedente. Infine mons. Antonio di Donna tratteggia da vescovo alcune caratteristiche di questa età e piste per una formazione permanente.
Gli spunti di meditazione sono offerti in questo numero da don Marco Vitale; mentre nel nostro cammino sulla via pulchritudinis siamo accompagnati da don Riccardo Miolo che ci aiuta a riflettere, con coinvolgenti esperienze personali, sulla bellezza della musica. La rubrica dedicata all’ars celebrandi è sempre di Enrico Maria Beraudo e le pagine UAC a cura di don Giuseppe Costantino Zito.
Ci auguriamo abbiate gradito il fascicolo degli Atti del nostro primo Convegno, inviato insieme allo scorso numero di Presbyteri. Assieme alla monografia attuale trovate invece i sommari dei numeri previsti per il 2021, scelti dalla Redazione dopo un confronto sulla situazione attuale della Chiesa e dei presbiteri in Italia. Vi chiediamo di aiutarci a diffondere la nostra Rivista, che speriamo troverete interessante e a cui ci auguriamo vorrete rinnovare la vostra fedeltà.
Vi ricordiamo infine come sempre che siamo disponibili a ricevere vostri suggerimenti o considerazioni, da inviare via mail (segreteria@presbyteri.it) o nella sezione commenti del nostro sito (www.presbyteri.it).
Buona lettura!
La Redazione
EDITORIALE
don NICO DAL MOLIN
C’è un romanzo della famosa scrittrice americana Joyce Carol Oates, dal titolo L’età di mezzo, che può rappresentare una interessante cornice per il tema di questa monografia. La storia è ambientata a Salthill-on-Hudson, una cittadina vicino a Manhattan, dove tutti gli abitanti sono ricchi, bellissimi e di mezza età, anche se dal look esteriore estremamente curato sembrano più giovani.
La Oates racconta bene le insofferenze, le paure e le ansie dei cinquantenni americani. Sono tutti benestanti, tutti con la voglia di cambiare la loro vita, tutti insoddisfatti delle scelte compiute, tutti in rotta con i propri figli che non li capiscono più.
Questo romanzo è la storia della ricerca di una identità smarrita e di chi non riesce a superare la crisi nostalgica per aver perduto l’età felice della giovinezza.
I preti dell’età di mezzo, anche se spesso non rappresentano la fascia maggioritaria di età, di fatto sono la struttura portante della proposta pastorale nelle nostre chiese locali. Sono anche una risorsa importante per essere il “trait d’union” intergenerazionale tra i preti giovani e i preti anziani, divenendo il collante che aiuta a vivere un senso di appartenenza meno ripetitiva e scontata. E tuttavia, loro stessi hanno bisogno di una attenzione e una cura che spesso non viene loro data, in nome di una presunta maturità e autosufficienza che in realtà conserva le fragilità e le debolezze irrisolte che ogni vita porta con sé.
Le età della vita
«Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio» (Sal 90,12). L’invocazione del Salmo 90 è la migliore introduzione alle nitide pagine di Romano Guardini, nel suo libro Le età della vita. Sono riflessioni acute e sempre attuali, che aiutano a chiarificare un’esperienza attraversata da tutti. In esse Guardini disegna la parabola di una vita riuscita, dove ogni fase ha senso e valore propri, attraversando crisi di crescita, equilibri e dinamismi peculiari.
Nella prefazione al testo, Alessandro Zaccuri scrive: «Guardini passa in esame l’intero percorso dell’essere umano, dal concepimento alla morte, soffermandosi in particolare sulle ‘crisi’ che fanno da cerniera tra una fase e l’altra: la crisi della crescita, la crisi legata all’esperienza, la crisi del limite e la crisi del distacco. Non si arriva alla saggezza se non si attraversano tutte e quattro queste prove, se non si fronteggiano ogni volta le incertezze e non di rado le paure che ogni trasformazione porta con sé».
Sono pensieri scritti agli inizi degli anni Cinquanta, in un secolo che sta uscendo dalla stagione dei totalitarismi. Eppure si calano con straordinaria lucidità anche in questo tempo in cui le differenti ‘età della vita’ sono spesso cancellate a beneficio di un artificioso ‘vivere senza età’.
L’età adulta e la crisi del limite
La fase di transizione alla seconda metà della vita è un momento critico per tutti. I confini sono fluidi, con una notevole variabilità tra individuo e individuo. L’età di mezzo, che Guardini colloca tra i 40 e i 60 anni, è una realtà che sorprende: ci accade, non la dobbiamo cercare.
La crisi della età di mezzo è da lui definita la crisi del limite. Diviene più acuta e consapevole la disillusione che la vita porta con sé. Non c’è più il senso della novità, ma quello del già visto e del già sperimentato, dove la tentazione è quella dello scetticismo sprezzante o dell’ottimismo superficiale. La soluzione positiva di questa crisi introduce ad un’età matura dove si abbandonano le illusioni di successo ed emerge «la virtù della risolutezza» verso gli impegni presi, nonostante le fatiche e le asperità della vita.
Nell’età adulta la persona ha delineato chiaramente il suo carattere e – scrive Guardini – sa “stare in piedi da solo”. La caratteristica principale di un adulto consiste nel saper prendere in considerazione i vari aspetti di un evento ed elaborarli in toto, senza trascurare (o facendo il possibile per non trascurare) nessun aspetto che sia effettivamente importante per quell’evento di vita. È il momento in cui ci sono molte energie da spendere ed una sufficiente esperienza accumulata che aiuta ad indirizzarle.
La crisi del limite, che può essere realmente una transizione verso una nuova maturità, inizia quando anche le energie fisiche e psicologiche, che si sono investite per sostenere le idee in cui si crede, iniziano ad affievolirsi. Si accumulano le responsabilità ed i carichi di lavoro; basterebbe pensare, per esempio, a quanto possano essere sovraccaricati i preti di questa età in termini di un impegno nel ministero e di un ruolo pubblico sempre più esposto e frequentemente discusso e criticato.
Ci si scontra con la difficoltà di tenere insieme realtà che per loro natura tendono a dissociarsi, dispiegando sforzi continui spesso vissuti in maniera solitaria e senza la percezione di qualche sostegno. Il desiderio sempre più evidente che emerge nei preti di questa età è che il proprio Vescovo metta come priorità del suo impegno episcopale la vicinanza e l’ascolto nei confronti del presbiterio.
Si affaccia il senso del limite, l’esperienza della stanchezza; svaniscono le ultime illusioni, sia quelle giovanili che quelle più mature. Si ha la sensazione di entrare in una routine che soffoca l’entusiasmo, attenua la passione e lascia in balia di ciò che molti scrittori antichi e moderni chiamano taedium vitae.
Quando subentrano disincanto e disillusione, il rischio latente – lo notiamo anche nell’ambito presbiterale – è quello di divenire scettici, sprezzanti, critici nel giudizio, spesso incapaci di cogliere la positività se non degli effetti almeno delle intenzioni e dell’impegno profuso in un servizio, in una esperienza, in una relazione.
Una opportunità diversa nel confrontare l’esperienza della disillusione e del limite è la capacità, che è anche una grazia, di essere misericordiosi verso gli altri e verso se stessi.
Uno sguardo misericordioso
«L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole» (Misericordiae vultus, 10).
Trovo un riscontro di ciò nelle parole di un grande maestro di spiritualità del nostro tempo, il monaco e teologo belga Daniel Ange: «A nuovi bisogni, santi nuovi. Dio aggiorna il Vangelo: lo Spirito modella nuovi profili. Eccoci entrati nell’era della santità dei miserabili. Tempo della grande miseria, tempo della grande misericordia.
Le grazie che sembravano riservate ai santi più grandi, eccole riservate ai più piccoli. Vedendo i giovani tanto perturbati, se non traumatizzati, si potrebbe credere: la stoffa umana è ormai a brandelli, non avremo più eroi. Non più eroi, ma molti santi.
Forse non santi da offrire come esempio di “perfezione”, ma amici di Dio da ricevere come un segno di consolazione».
La via della misericordia permette una visione più lucida e consapevole della realtà, che diviene possibile quando si è consapevoli dei propri limiti e disposti ad accettarli. Con questa realistica consapevolezza, il presbitero che si confronta con la propria disillusione non pretende più di “cambiare il mondo”.
Non cade nella trappola di quella che oggi pare una sindrome sempre più pervasiva e virale: la sindrome spotlight, il bisogno di essere continuamente sotto i riflettori, di cercare visibilità, di avere successo e conferme nella propria immagine pubblica.
Ci si rende conto che, per l’annuncio del Vangelo e la crescita di uno stile comunitario, sono più generative le piccole azioni giornaliere piuttosto che le grandi rivoluzioni. È interessante l’esperienza personale di uno scrittore come Giovanni Papini che, dopo aver stroncato un gran numero di filosofi, dapprima scrive un libro, Le memorie d’Iddio nel quale dichiara che l’uomo può arrivare all’Assoluto ed invita gli uomini a farsi atei. Poi scrive un secondo libro, Storia di Cristo, nel quale riconosce i limiti suoi e dell’uomo in generale.
«L’autore di questo libro ne scrisse un altro, anni fa, per raccontare la malinconica vita d’un uomo che volle, un momento, diventar Dio. Ora, nella maturità degli anni e della coscienza, ha tentato di scrivere la vita di un Dio che si fece uomo».
L’arte del “riconoscere”
Nell’Instrumentum laboris in preparazione al XV Sinodo I giovani la fede e il discernimento vocazionale, la dinamica del discernimento viene proposta attraverso la scansione di tre verbi: riconoscere, interpretare, scegliere. L’arte del riconoscere, essenziale in tutta la vita, diviene cruciale nell’attraversare l’età di mezzo. Essa permette di rielaborare, alla luce del ricordo di ciò che si è vissuto, le proprie esperienze per imparare da esse e per far maturare un approccio diverso, che induca a resettare l’ansia di prestazione, in una consapevolezza più realistica del proprio limite. «Riconoscere significa “dare nome” alla grande quantità di emozioni, desideri e sentimenti che abitano ciascuno. Giocano un ruolo fondamentale e non vanno occultati o sopiti» (IL 113).
Questo è il tempo della memoria. «La memoria della maggior parte degli uomini è un cimitero abbandonato, dove giacciono senza onori i morti che essi hanno cessato di amare»8. È una espressione graffiante e incisiva che la scrittrice Marguerite Yourcenar mette in bocca a Publio Elio Traiano Adriano, imperatore romano del II secolo, nella lunga lettera di memorie che egli scrive al giovane amico Marco Aurelio. Uno dei drammi del nostro tempo è il vuoto disorientante del non sapere più chi siamo, dove andiamo, perché lo facciamo. Martin Heidegger definisce tutto ciò lo “spaesamento” dell’essere.
Ciò comporta una diffusa amnesia, vissuta come frattura e dissociazione in vari ambiti della vita stessa: tra il pensare e il sentire; tra aspetti di vita rigidamente separati fra loro e percepiti come compartimenti stagni; tra l’io e gli altri; tra la propria storia personale e la tradizione in cui ogni vita affonda le proprie radici.
Sant’Agostino indica nella interiorità del cuore la via più preziosa e diretta per accedere ed elaborare la realtà del tempo. «È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo».
Il riconoscere porta a scandagliare la sorgente fresca e profonda delle proprie radici, per ritrovare la forza e la spinta del “primo amore” che ha ispirato la propria scelta di vita. In ognuno di noi c’è un patrimonio di cammino, di esperienze e di impegno ricco di umanità, passione e dedizione da assumere ed elaborare.
È l’arte dello scriba descritto in Mt 13,52: «Egli disse loro: Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
Il tempo della memoria porta a chiedersi: «A che scopo sto facendo questo?» La risposta più matura dovrebbe essere: «Non per me!». Comincio da me stesso ma non finisco su me stesso. Sono il punto di partenza ma non sono la meta di arrivo. Ho consapevolezza di ciò che sono, con il mio carico di fragilità e di desideri, ma non vivo costantemente preoccupato di me stesso.
Attingendo ancora al romanzo Memorie di Adriano, è essenziale allora «costruire i granai della memoria, per ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire».
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