9 – 2020

QUALE SPIRITUALITÀ DIOCESANA PER IL PRETE?

 

Carissimi lettori,

vi raggiungiamo con questa monografia che abbiamo voluto dedicare all’aggettivo “diocesano”, come connotante la spiritualità del presbitero, chiamato e ordinato all’interno di una Chiesa particolare.

Dopo l’apertura dell’Editoriale a cura di don Nico Dal Molin, mons. Luigi Mansi, vescovo di Andria, presidente dell’Unione Apostolica del Clero in Italia e nostro membro di Redazione, metterà a fuoco ciò che costituisce lo specifico della spiritualità che deve caratterizzare l’esercizio del ministero sacro. A seguire mons. Michele Tomasi, da un anno nella Diocesi di Treviso, ci aiuterà a fare un percorso tra le relazioni fondanti la spiritualità del presbitero e le priorità per giungere assieme a una spiritualità presbiterale diocesana.

Proponiamo in questo numero due spunti di meditazione, di carattere diverso. Don Umberto Pedi, per più di 10 anni Presidente UAC, ci descrive il cammino compiuto da questa associazione e riflette sui fondamenti che il Libro dell’Apocalisse fornisce alla spiritualità diocesana. In un secondo contributo riproponiamo l’omelia che mons. Franco Giulio Brambilla vescovo di Novara ha tenuto nella messa crismale del 2019 proprio sulla vita spirituale del prete.

Nel nostro cammino sulla via pulchritudinis siamo accompagnati da don Riccardo Miolo che ci aiuta a riflettere, con coinvolgenti esperienze personali, sulla bellezza della musica. La rubrica dedicata all’ars celebrandi è sempre di Enrico Maria Beraudo e le pagine UAC a cura di don Giuseppe Costantino Zito.

Ci auguriamo abbiate regolarmente ricevuto il numero 8 di Presbyteri e l’allegato fascicolo con i sommari delle monografie del 2021. Speriamo abbiate gradito la nostra scelta dei temi, fatta anche alla luce della prova che stiamo tutti attraversando e che come Chiesa e come singoli presbiteri ci chiede una riflessione approfondita per un ministero che sappia vivere e annunciare il Vangelo nel contesto di oggi. Speriamo anche di poter continuare ad avervi come nostri lettori, chiedendovi di provvedere per tempo al pagamento della quota di abbonamento, che ormai da molti anni è ferma a 50 euro. Rinnoviamo l’invito ad aiutarci a diffondere la nostra Rivista, potrebbe essere un bel regalo per i confratelli o per i preti amici; per i nuovi abbonati la quota si abbassa a 40 euro.

Vi ricordiamo infine come sempre che siamo disponibili a ricevere vostri suggerimenti o considerazioni, da inviare via mail (segreteria@presbyteri.it) o nella sezione commenti del nostro sito (www.presbyteri.it).

Buona lettura!

La Redazione

 

EDITORIALE


don NICO DAL MOLIN

 

Nell’introdurre il sommario delle tematiche di Presbyteri 2019, p. Lorenzo Prezzi proponeva una serie di “notarelle” sulla vita del prete, con una interessante riflessione.

I viaggi «riparatori» di Francesco alle tombe di Milani, Mazzolari, Bello, Zeno Saltini raccontano, con maggiore efficacia, dei pur coraggiosi suoi discorsi sulla spiritualità del prete. Vi è una narrazione di santità che va ripresa e coltivata. Il tema fondamentale è come la fede del ministro sia alimentata e messa alla prova dalla prassi ministeriale; di come la sua fede possa crescere nell’annuncio e nella cura della fede degli altri; di come nel cammino spirituale del prete si incroci il cammino del popolo di Dio (…) Credo che in ogni diocesi vi siano figure di grande rilievo in ordine alla qualità del servizio ministeriale. Abbiamo in merito un patrimonio enorme. Non usarlo  sarebbe una infedeltà allo Spirito.

Questa può rappresentare una suggestiva chiave di lettura nel far emergere una via attuale e concreta di «spiritualità diocesana per il prete»

 

Non nonostante il ministero, ma nel ministero

C’è una domanda cruciale da cui partire: il ministero del presbitero può diventare un cammino spirituale?
Scrive il vescovo Franco Giulio Brambilla: «Solo la sintesi che avviene nel vivo del ministero può far ritrovare al prete l’unità della vita spirituale. La concentrazione sull’essenziale dell’agire pastorale è condizione per ritrovare l’unità della vita di fede. Il prete può essere pastore autentico solo come credente».
In altre parole, si può vivere una spiritualità presbiterale non nonostante il ministero, ma nel servizio stesso del ministero. Il presbitero, «uomo della Parola e dell’Eucaristia, uomo della comunione e della carità, come può non essere discepolo del Vangelo mentre lo annuncia, lo celebra e lo trasmette come esperienza di comunione?».
Parliamo della non scontata dimensione della «spiritualità del presbitero diocesano» o, con una differente ottica di approccio, della «spiritualità diocesana del presbitero».
La chiesa italiana negli anni ’70 e ’80 ha prodotto una riflessione profonda e di qualità su questo tema. Eppure, pare che queste intuizioni, solo in piccola parte si siano diffuse nel tessuto vitale del ministero presbiterale e del servizio pastorale.
L’esperienza di questi mesi di emergenza sanitaria, e in particolare le settimane del lockdown, hanno permesso a molti preti di riprendere confidenza con ritmi di vita più vivibili e pacati, meno connessi ad una sorta di concitazione pastorale nella quale spesso ci troviamo immersi. Probabilmente in qualcuno ciò ha creato disorientamento, galleggiando come in un limbo di smarrimento e di vuoto.
Se la nostra identità di ministri e pastori è troppo in simbiosi con ciò che facciamo, con il ruolo che rivestiamo, il “deporre queste vesti” può risultare destrutturante ma anche estremamente benefico.
Questa liminalità inaspettata ha posto le premesse per una consapevolezza nuova ed una esigenza diversa di individuare tempi e modi più pacati per ridare spazio ad una insostituibile esperienza spirituale. E ciò ha ridato spessore e profondità a relazioni, a colloqui che, seppur vissuti a distanza, si sono rivelati intensi e capaci di entrare nel cuore delle persone e delle situazioni che venivano condivise.

Ridefinire i «tempi» per reinventare gli «spazi»

Papa Francesco, nell’introdurre l’assemblea dei Vescovi italiani nel 2016, diceva: «È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito».
Perché non riflettere seriamente su questo? Perché non mettere a tema che una profonda ridefinizione dei «tempi e dei ritmi» della nostra vita può avere una ricaduta provvidenziale sul modo di gestire gli «spazi» della nostra pastorale?
Le coordinate antropologiche e pastorali del «tempo» e dello «spazio» sono profondamente cambiate, non solo a causa della pandemia (un tempo sospeso e uno spazio limitato), ma lo erano già nella percezione e nel vissuto precedente a questo evento. L’emergenza sanitaria non ha fatto altro che amplificare tutto ciò.
Come rileggere e rimodulare queste dimensioni in una visione prospettica e non più conservativa? Come esse possono influenzare la vita delle comunità cristiane e il ministero dei presbiteri?
Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (EG 223).
Trovare l’essenziale non è un’operazione di dimagrimento quantitativo della azione pastorale, ma è piuttosto un processo creativo di come immaginare un nuovo «dire» e un nuovo «fare» della comunità cristiana e del ministero. Lo sappiamo per esperienza diretta: questa è una delle questioni che rimbalza continuamente negli incontri del clero.
Tanti impegni rendono frammentata la vita del prete, con quel senso di frustrazione latente di non poter arrivare a tutto. Alcuni di questi coinvolgimenti dovrebbero e potrebbero essere ridotti, potati. Molti altri possono essere riformulati o re-inventati. Tutto ciò richiede di saper adattarsi a questa inedita situazione di vita con un altro sguardo, rinunciando all’eterna illusione/tentazione di poter controllare tutto, perché «quanto credevamo solido si rivela invece friabile o liquido; di qui la sensazione che ci manchi la terra sotto i piedi, la nostalgia per ciò che ci dava sicurezza e il tentativo disperato di far tornare tutto come prima, provando a occultare i problemi (…) Cambiare sguardo significa innanzi tutto rinunciare a ricondurre l’ignoto al noto, ad avere per tutto una spiegazione comoda, accettando invece di lasciarsi stupire e mettere in crisi».
L’essenziale, quindi, è davvero una questione di sguardo. Questo si genera e si amplia nel contesto della chiesa locale in cui si vive, con le sue peculiarità, i suoi limiti e le sue risorse. Nasce e cresce a contatto con quella gente che ci è stata affidata, accettando di «farsi carico di essa, sentendosi partecipi e responsabili del suo destino».
Questa è la sorgente viva della spiritualità diocesana del presbitero. Quando la predicazione è il luogo dell’ascolto della Parola, per lo stesso presbitero.
Quando la celebrazione eucaristica è il momento della preghiera comune con l’assemblea. Quando il sacramento della riconciliazione è l’esperienza della misericordia che guarisce e che riscatta l’inaridirsi della motivazione e della passione del prete stesso. Quando l’annuncio e la catechesi divengono spazio per la sua stessa formazione personale e intellettuale e la guida della comunità è il luogo in cui plasmare la bellezza e la vitalità delle proprie relazioni. Quando l’accompagnamento umano e spirituale di fidanzati e famiglie ci aiuta a comprendere quanto la sofferenza e la gioia delle persone possono diventare la propria ferita e consolazione, perché non ci si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano.

 

La «prossimità» fonte di vera spiritualità

In una civiltà paradossalmente ferita dall’anonimato e, al tempo stesso, ossessionata per i dettagli della vita degli altri, spudoratamente malata di curiosità morbosa, la Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario (…) Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione (EG 169).
È essenziale individuare quali siano le domande e i bisogni reali delle persone. La prossimità è una presenza che si fa ascolto, accoglienza, proposta, disponibilità, entrando in quei contesti di vita dove le persone vivono e si ritrovano. È una compagnia capace di vivere il ministero della consolazione per chi è sfiduciato, smarrito e non ha punti di riferimento relazionali ed esistenziali. I presbiteri oggi (ma lo si può dire di tutti i discepoli di Gesù) sono chiamati ad essere «martiri», nel senso etimologico del termine, cioè testimoni della gioia e della fatica.
C’è un episodio emblematico nella vita di don Primo Mazzolari. Quando l’arcivescovo di Milano, il cardinale Alfredo Ildelfonso Schuster sconfessò la rivista quindicinale «Adesso», che don Mazzolari aveva fondato nel 1949, don Primo, accettando in sofferta obbedienza quella decisione, scrisse: «Tutto è speranza, perché tutto è fatica; tutto è grazia, anche il morire; tutto è testimonianza, anche il silenzio, soprattutto il silenzio. Chi vive con i poveri da quando è nato e si dà attorno per vedere se può fermare la loro diserzione dalla Chiesa, può sbagliare nel por mano ai rimedi. La Madonna avrà misericordia di un vecchio prete che viene riprovato senza misericordia».
L’icona evangelica che meglio interpreta il senso di questa proposta può essere il racconto della «lavanda dei piedi» (Gv 13,1-15).
Essa ci propone la traiettoria a cui può ispirarsi la spiritualità diocesana del presbitero. Una spiritualità che nasce dal servizio e sfocia nel servizio, per essere sempre più «una spiritualità della comunione, che diventi come un principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano».
Se l’esperienza della lavanda dei piedi diviene criterio ispiratore nella vita dei preti e delle comunità cristiane, da metafora della misericordia essa diviene un punto luce imprescindibile, per riscoprire e liberare energie di comunione e di servizio.
Ognuno è chiamato ad imparare che nella vita sempre si riceve e sempre si dona qualcosa. La chiesa può cambiare lungo il corso dei tempi e della storia.
Ciò che conta è che essa continui a vivere la beatitudine del servizio, avendo nel cuore il criterio ben chiaro che Gesù propone ai suoi discepoli: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi; sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» (Gv 13,15-17).

 

 

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