don GIUSEPPE COSTANTINO ZITO
della Redazione di Presbyteri
Sa, dottore, mi vergogno molto della mia paura. Dico a me stesso che, come prete, non dovrei aver paura di morire. Penso a tutte le volte, che ho consolato e confortato la gente, forte della mia fede e, ora, mi chiedo dove sia finita. Forse ho creduto di consolare o confortare o forse tutte quelle persone erano migliori di me.
Queste parole, rivolte da un Presbitero gravemente ammalato allo psicoterapeuta che lo accompagnava, indicano
che il Ministro Ordinato, come ogni altra persona, non sfugge all’esperienza del soffrire e all’impatto che essa può avere su tutte le dimensioni del suo essere, da quella fisica a quella intellettiva, da quella emotiva a quella spirituale.
La confessione del Presbitero, sopra riportata, fa emergere l’interrogativo: come può un Ministro Ordinato far fronte alle ferite della vita, in modo che esse si trasformino in occasione di crescita umana e spirituale, rendendolo capace di aiutare efficacemente quanti vivono la stagione della sofferenza?
In queste brevi riflessioni ci proponiamo dunque di suggerire al Presbitero alcuni passi di un cammino da compiere per
dare un senso e una finalità all’esperienza del dolore. Prendere coscienza delle ferite Chiediamoci anzitutto quali possono essere le ferite di un Ministro Ordinato.
A ben vedere, la condivisione della condizione umana fa sì che, come ogni altro essere umano, egli sia infatti chiamato ad affrontare la sofferenza causata dalle malattie, dalla solitudine, dalle separazioni, dai vuoti esistenziali, dalle immaturità, dal peccato. Accanto a queste ferite ve ne sono altre, legate alla sua condizione di vita e all’esercizio del Sacro Ministero: l’apostolato fa anche i conti con i rifiuti, le incomprensioni, le calunnie, i ritardi, i fallimenti, i vuoti, le assenze. A causa poi dell’influenza di una cultura secolarizzata, dell’affermazione di un accentuato individualismo anche nel campo religioso, degli scandali che funestano la Chiesa, la figura del Presbitero ha perso via via autorevolezza, determinando una diminuita attenzione ai suoi interventi nei vari settori non solo della società, ma anche della comunità ecclesiale. Frequente è anche il senso d’impotenza, avvertito di fronte a situazioni, che superano la sua capacità di intervento: l’allontanamento progressivo della gente – soprattutto delle nuove generazioni – dalla pratica religiosa, la difficoltà di rispondere a tante domande esistenziali che insorgono in occasione di tragedie, come il Covid-19 o la stessa guerra. Generano pure sofferenza la diminuzione numerica del clero e la crisi vocazionale, il conseguente aumento dell’attività pastorale con il rischio di cadere in un esaurimento psicospirituale (burnout), una solitudine comunicativa e relazionale, la mancanza di un autentico sostegno da parte dei Superiori e della propria Comunità.
L’incapacità di guardare in faccia e di riconoscere le proprie ferite può avere pertanto degli effetti negativi sul comportamento del Ministro Ordinato, dando origine molto spesso ad atteggiamenti duri e rigidi nei confronti delle
persone, inducendo a rifugiarsi nel ritualismo, a ricorrere a facili consigli, a stereotipi pastorali, a giustificazioni inopportune, ad un lezioso moralismo, talora anche ad una “doppia vita”. Oltre la consapevolezza delle ferite
Da sola, la presa di coscienza delle proprie ferite non risulta sufficiente. Al Presbitero, consapevole della propria sofferenza, può accadere infatti di sentirsi disarmato di fronte ad essa, fino ad esserne schiacciato.
In questi casi, è facile che egli cada in uno stato d’inerzia accidiosa oppure che si perda in lamentele, mostrando in modo inappropriato le proprie ferite alle persone di cui ha cura, o che abbondi in critiche su tutto e su tutti, dando la colpa del proprio malessere a fattori, che sono al di fuori della propria persona.
Alla presa di coscienza è quindi importante che faccia seguito l’accettazione delle proprie ferite, riconoscendo che esse fanno parte della condizione umana, ragione per cui non vanno occultate o rimosse, bensì integrate.
In tal modo, «si tratta di conquistare la consapevolezza che la realizzazione della nostra umanità passi attraverso la
‘porta stretta’ dell’accettare che la vita preveda in sé anche l’esperienza della sofferenza».
L’accettare i propri limiti e le sofferenze, a cui lo espone la vita, consente al Ministro Ordinato non solo di superare l’illusione, presente nell’inconscio, di essere invulnerabile e immortale, ma anche di redimerle. Infatti, solo ciò che è accettato può essere redento! L’integrazione delle ferite Il passo, successivo all’accettazione, consiste nel “fare pace”, operando una sintesi dentro di sé con la dimensione notturna della vita: sofferenza, malattia, morte, immaturità, peccato. Si tratta di un processo impegnativo ma liberante, un processo di guarigione, che conduce il Presbitero a non essere vittima delle avversità della propria vita, ma ad utilizzarle per un cammino di crescita umana e spirituale.
Anche da un punto di vista umano è possibile percorrere tratti di tale itinerario. Infatti, le malattie fisiche o una stessa crisi possono offrire l’occasione per pensare o ripensare a quanto dell’anima era stato trascurato: interiorità, valori, ecc.
Esemplificative in tal senso risultano le testimonianze, che vengono offerte da persone che hanno superato vittoriosamente gravi malattie o che hanno percorso l’itinerario della psicoterapia. Riuscendo a superare l’oscuro tunnel del disagio fisico e psichico, si sono trovate creature rinnovate, capaci di vedere con occhi diversi la realtà.
Il Ministro Ordinato, come del resto ogni cristiano, oltre che delle risorse umane può avvalersi anche dei mezzi soprannaturali, attraverso cui il buon Dio gli comunica la salvezzaguarigione.
Significativi riferimenti biblici indicano la dinamica pasquale, che ha luogo nel processo integrativo della sofferenza: la
lotta tra Giacobbe e lo sconosciuto nel cuore della notte (cf. Gen 32,26), l’immagine del chicco di frumento, che deve cadere nel solco e morire per produrre nuova vita (cf. Gv 12,24), l’albeggiare della luce per «quelli che siedono in regione e ombra di morte» (Mt 4,16), il Mistero di morte e di gloria del Cristo (cf. 1Cor 15,3-6) e di coloro che Gli appartengono (cf. Ef 3,10-11; 2Cor 4,7-12).
La realizzazione di quanto significato da queste immagini è possibile nella misura in cui il Presbitero, con l’aiuto della
Grazia, penetra all’interno della propria persona, trovandovi la forza guaritrice di Dio nel momento stesso, in cui fa esperienza della propria debolezza. Quando ciò avviene, egli può comprendere che le sue sofferenze, leggere o gravi che siano, sono esperienze che non rimangono in sé isolate, ma si relazionano con la sofferenza stessa del Signore. Gesù, infatti, sana i nostri dolori, strappandoli dal nostro ambito egocentrico, individualista e privato e connettendoli
con il dolore di tutta l’umanità, che Egli ha assunto. Se dunque la sofferenza del Ministro Ordinato – alter Christus
– è compresa in una sofferenza più grande, se per davvero costituisce parte del Mistero Pasquale di Colui che disse: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,26), allora essa assume il senso, che aveva per Gesù: un’autentica espressione di amore8! Ci fa riflettere lo psichiatra Carl Gustav Jung (1875-1961), quando invita il credente ad identificare il Cristo nella parte inferma, presente nella propria persona:
Vi ammiro, voi cristiani, perché identificate Cristo con il povero e il povero con Cristo e, quando date del pane ad un povero, sapete di darlo a Gesù. Ciò che mi è più difficile comprendere è la difficoltà, che avete a riconoscere Gesù nel povero, che è in voi. Quando avete fame di guarigione e di affetto, perché non lo volete riconoscere? Quando vi scoprite nudi, quando vi scoprite stranieri a voi stessi, quando vi ritrovate in prigione e malati, perché non sapete vedere questa fragilità come la presenza di Gesù in voi?.
In quest’ottica, acquistano il loro pieno significato le parole del Maestro: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25). Esse invitano ad uno stile di vita proprio di chi, come Gesù, è disposto a fare dono di sé per il bene degli altri. Pensiamo all’esempio luminoso di San Pio da Pietrelcina (1887-1968)!
Il Presbitero, che sa morire a se stesso, accettando le fatiche e le pene, causate dalla vita e dall’esercizio del Ministero,
può benissimo ripetere le mistiche parole dell’Apostolo delle genti: «Do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo,
manca nella mia carne, a favore del suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1,24).
Significativa risuona a tal proposito la famosa frase di Don Primo Mazzolari (1890-1959): «Ogni sforzo di staccare il prete dalla croce è un attentato alla sua missione», che troviamo riportata in un altrettanto interessante articolo.
Solo se considerata da questa prospettiva, la sofferenza può maturare e plasmare il Ministro Ordinato, operando in lui
una trasformazione, ben rappresentata dall’arte giapponese del kintsugi, consistente nel riunire con un metallo prezioso – oro o argento liquido oppure lacca con polvere d’oro – i pezzi di un oggetto di ceramica rotto. La ceramica riparata si ripresenta in tal modo con una nuova veste, grazie ad un intreccio casuale di linee e di solchi dorati, che si rincorrono, rendendo l’oggetto prezioso, unico ed irripetibile, ognuno con la propria storia da raccontare, ognuno con la propria bellezza da condividere. L’aiuto a chi soffre Il vivere e il gestire la propria sofferenza, nel senso sopra indicato, rende il Presbitero un guaritore ferito12. Ferito, non malato! Una persona, cioè, che non ignora, né occulta, né crede o spera di non avere ferite, ma che è capace di gestirle e di guarirle, trasformandole con l’aiuto di Gesù, medico delle anime e dei corpi, in fonte di guarigione per gli altri. «Solo il dottore ferito può guarire – ha scritto lo psichiatra Carl Jung – sia egli medico o sacerdote». Ora, come viene attestato dalla Lettera agli Ebrei, il Figlio di Dio è il guaritore ferito per eccellenza. Difatti, «non abbiamo un sommo sacerdote, che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,5)14. Ha infatti sofferto i dolori della passione, è morto in croce, ma poi è risorto. E le sue piaghe sono il segno vivo e concreto del suo amore ferito, come pure della nostra redenzione e riconciliazione con il Padre: «dalle sue piaghe siete stati guariti!» (1Pt 2,24)15.
Il riconoscimento, l’accettazione e l’integrazione delle proprie sofferenze possono dunque suscitare nel Ministro Ordinato sentimenti di comprensione, partecipazione e compassione, che lo avvicinano con libertà interiore a chi è ferito dalla vita, recandogli conforto, accompagnandolo in un processo di guarigione e infondendogli quella speranza, che è germinata dalla propria esperienza.
Guarito e consolato dal Signore – come scrive San Paolo – il Presbitero può pertanto diventare anch’egli, a sua volta, un autentico consolatore: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione, con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2Cor 1,3-4).
Una conferma di quanto appena detto ci viene offerta da un episodio della vita di San Camillo de Lellis (1550 – 1614),
patrono dei malati e degli operatori sanitari.
Quando, agli inizi della fondazione, una grave malattia lo colpì insieme al primo compagno Curzio Lodi, Camillo – secondo quanto scrive il suo primo biografo – non si sgomentò; anzi, sopportando pazientemente il male, rendeva grazie al Signore, che lo facesse di tanti favori degno, confortando anco Curtio ad haver nella sua infermità pazienza, dicendogli che N. S. Iddio aveva mandato loro dette infermità, perché – fatti essi buoni e perfetti maestri nel patire – sapessero poi con più carità e compassione servire e compatire al prossimo infermo.
Restano vere e molto significative le parole del teologo olandese Henri Jozef Machiel Nouwen (1932-1996): «Solo chi si trova ‘a suo agio in casa propria’ può accogliere l’ospite, creando per lui ‘uno spazio libero, privo di paure».
E ancora: «Chi nella propria vita si è sempre protetto dalle esperienze di dolore non potrà offrire agli altri che una vuota consolazione».
La ricerca d’aiuto Il cammino, che porta ad una sana gestione della sofferenza, è difficilmente percorribile nell’isolamento. La capacità di chiedere e ricevere aiuto con quella di lasciarsi amare fa difatti parte del processo risanatore, anche per il Ministro Ordinato! Nei Vangeli troviamo alcuni episodi, in merito a ciò, che mettono bene in rilievo l’attenzione di Gesù ai propri bisogni e la sua capacità di chiedere e di accogliere il sostegno altrui. Quando, ad esempio, una donna unge il suo capo con nardo prezioso, egli ribatte le critiche dei discepoli, affermando che quel gesto era stato compiuto in previsione della sua sepoltura (cf. Mt 26,6-13). O in un’altra occasione, quando – oppresso,
nell’Orto degli Ulivi, da un’angoscia di morte – egli chiede il supporto dei suoi discepoli: «La mia anima è triste fino alla
morte; restate qui e vegliate con me» (Mt 26,38).
Anche nella letteratura, concernente le scienze sanitarie e la psicoterapia, viene sottolineata l’importanza di essere capaci di aprirsi all’aiuto dell’altro per far fronte alle difficoltà e sofferenze dell’autoguarigione e della crescita20.
Decisivo in tal senso è anche il ruolo della Chiesa locale nell’offrire al Presbitero un sostegno e una cura adeguati, rimettendo al centro dell’agire ecclesiale la propria identità di «casa e scuola della comunione»21 oltre che un’efficace Pastorale della salute22, nella consapevolezza che le sofferenze e le fragilità del Consacrato – se accolte, elaborate ed integrate – possono diventare, con la grazia di Dio, autentiche risorse per aiutare gli altri; feritoie, da cui passa la luce del Dio di ogni consolazione; vocazione e appello per essere la Chiesa sinodale, “ospedale da campo”, che con fantasia e premura pastorale sa diventare grembo materno e accogliente per l’edificazione di una società più inclusiva, fraterna e solidale.
Conclusione
Il processo, che conduce alla guarigione, pur ricco di momenti drammatici, porta a gustare il frutto della gioia, che acquista mille sapori: sicurezza, serenità, speranza, pace. Ciò accade nella vita del Ministro Ordinato, anche quando
la sofferenza non scompare, ma cambia di segno, illuminandosi di un significato, che la trasforma.
In un’ottica cristiana, laddove la guarigione viene vista nel contesto più ampio della salvezza, risuona significativo un versetto del Salmo 50: «Rendimi, Signore, la gioia di essere salvato!» (v. 14).