Insieme come a Betania

don MASSIMO GONI

della Redazione di Presbyteri

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Offro alcuni spunti di carattere spirituale per interrogarci e verificare il nostro approccio alla vita comune in quanto presbiteri o diaconi. Prendo come icona evangelica l’episodio della “casa-famiglia” di Marta, Maria e Lazzaro (cfr Lc 10,38-42), come forma di “vita comunitaria in relazione a Cristo”. In essa il maestro e guaritore itinerante di Nazareth trova uno spazio “positivo” per la sua esistenza psico-fisica e la sua missione spirituale. Anche la vita e il ministero di coloro che sono chiamati a rappresentare il Cristo al mondo può trovare nelle nostre comunità presbiterali o diaconali un grande aiuto, ma solo a certe condizioni. La “casa di Betania” diventa profezia di come la nostra unione sacramentale possa realizzarsi in una comunione vera in senso effettivo ed affettivo. Essa ci provoca ad essere “fratelli con” e “fratelli per”.

            L’icona biblica è presentata, sinteticamente, nella descrizione fatta in occasione della rinnovata festa del 29 luglio, dedicata ora ai tre fratelli, “di sangue” e “di fede”, con queste parole:

Nella casa di Betania il Signore Gesù ha sperimentato lo spirito di famiglia e l’amicizia di Marta, Maria e Lazzaro, e per questo il Vangelo di Giovanni afferma che egli li amava. Marta gli offrì generosamente ospitalità, Maria ascoltò docilmente le sue parole e Lazzaro uscì prontamente dal sepolcro per comando di Colui che ha umiliato la morte (Decreto Congregazione Culto Divino).

Ovviamente questo contributo non vuole dare le risposte, quanto suscitare le domande, in una preghiera di ascolto dello Spirito che parla a ciascuno di noi. La questione fondamentale resta sempre la domanda essenziale della meditazione cristiana, ovvero: «cosa dice a me la Parola?», «cosa dice alla mia situazione concreta e attuale?». La risposta ultima la darà lo Spirito Santo in dialogo col nostro spirito.       Ripercorriamo le singole figure, con una semplice esegesi, approfondimenti e interrogativi.

Come Marta

            È colei che organizza la casa-famiglia. Nel brano di Lc 10 la vediamo propensa ad accogliere Gesù nella sua casa (v. 38) e a prodigarsi in molti servizi (v. 40). Pensiamo soprattutto a quello della preparazione del cibo, sicuramente importante, sempre apprezzato e dal grande valore simbolico. Poi ci saranno stati altri servizi, quali l’offerta dell’acqua per lavarsi o la preparazione dello spazio per sedersi, parlare, riposarsi… Anche oggi il trovarsi per una “mangiata” (come si dice dalle mie parti) è cosa molto apprezzata e desiderata… anche dai presbiteri e diaconi! Spesso diventa il luogo del dialogo, della verifica pastorale, della progettazione, della collaborazione e della consolazione dei cuori.

            Marta con la sua indole attiva, premurosa, generosa invita a farci “animatori di fraternità”. Circa le modalità comunitarie possiamo restare aperti alle molteplici forme. Esistono molti modi e momenti: da quelli occasionali, a quelli celebrativi, a quelli più stabili, strutturati, a seconda delle sensibilità e spiritualità delle persone, fino a quelli indicati e promossi dal servizio diocesano del Vescovo con i suoi Vicari. Aprire le porte… preparare gli spazi (anche in modo bello e confortevole) … offrire qualcosa (dal cibo …ai momenti formativi), magari dando un divano per schiacciare un pisolino… Oppure farsi promotori di momenti di svago o relax in ottica di arricchimento spirituale e umano, quali: pellegrinaggi, gite, convegni di studio, cenacoli di condivisione… Le modalità possono essere tante quante le esigenze delle persone. I bisogni vanno colti da tali “animatori del presbiterio” o “animatori delle comunità di diaconato”, in modo preventivo, sempre attento, sensibili in una sorta di “formazione permanente informale” o “in situazione”.

            Crediamo preziosa la figura di Marta, anche se Gesù la richiama perché si preoccupa e si agita per le molte cose da fare (cfr v. 41). Sappiamo che tali richiami, come ci dicono gli esegeti, non sono negativi, ma vanno colti nel senso di una maggiore integrazione tra il fare e l’essere, tra l’ora e il labora, tra il progetto e il senso ultimo.

Marta che accoglie nella sua casa è quindi il segno carismatico di chi è comunque attento alla persona e si prodiga affinché ciascuno dei propri “amici-con-fratelli” possa avere il calore di un invito e di un momento che “sa di casa”.

Ci interroghiamo su come possiamo essere come Marta e in quale modo farci organizzatori della vita comunitaria, intesa in tutti i modi possibili, ma che sempre necessita di “animatori concreti”, attenti anche alla dimensione fisica delle persone.

Come Maria

            Marta, Maria e Lazzaro sono fratelli di sangue e “amici” del Signore Gesù (cfr Gv 11) in un’amicizia ricambiata (cfr vv. 3.11). I sentimenti verso Gesù sono intensi (v. 35) e forte è l’amore che li lega (v. 36). Ma è nella figura di Maria che vogliamo rispecchiarci per cogliere una qualità relazionale, definita come di chi «si è scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (cfr Lc 10, 42).

            Come sono le relazioni tra noi presbiteri e tra diaconi? È sufficiente abitare fianco a fianco? Com’è organizzata la giornata tra noi? Quali gesti, momenti, regole di comunione ci siamo dati? Come coniugare le diversità caratteriali o anche di età? Tante sarebbero le domande relative al modo di essere in comunione nel nome della Trinità e con maturità umana.

            Maria ci offre due azioni: “sedutasi ai piedi” e “ascoltava” (v. 39).

Sedersi ai piedi rimanda al tipo di relazione tra i due. Questa non appare di competizione, o di docenza, di possesso o di pura convivenza. Il gesto è eloquente e richiama le parole di san Paolo: «Amatevi gli uni gli altri, gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10). Il gesto di Maria dice che si deve cominciare da un’accoglienza non giudicante e ancor più, da un’accoglienza che valorizza l’altro: nei suoi talenti, competenze, intuizioni pastorali, risonanze spirituali… Ciò che ci deve stare a cuore e che deve trasparire è il “bene dell’altro”, vero senso dell’espressione “ti voglio bene”.

Ascoltare poi è il verbo fondamentale di ogni vita pienamente umana e credente, che si fa accoglienza del Verbo Incarnato e di ogni con-fratello, il quale è sempre presenza/segno del medesimo Verbo. Anche questo verbo andrebbe approfondito e tanti sono i contributi che possiamo trovare. Ora possiamo interrogarci solo sullo spazio e sul tempo che diamo per un vero ascolto dell’altro, in modo empatico, non giudicante, da veri con-fratelli e amici. Al di là dei convenevoli nelle sacrestie o di qualche racconto goliardico a tavola, sappiamo donarci un ascolto più profondo? Può essere anche per una confessione sacramentale o per l’accompagnamento spirituale. Oppure un ascolto alla sera, in casa o per telefono, quando si torna stanchi e a volte arrabbiati per le controversie pastorali e più forte può essere il bisogno qualcuno che, magari accettando uno sfogo, aiuti a ‘ritrovare senso’ e a non evadere in fughe varie. Comunque sia, l’impressione è che i presbiteri e diaconi abbiamo molto bisogno di un fratello che li ascolta con interesse, rispetto e senza fretta.

Come Lazzaro

            Lazzaro appare escluso nel racconto di Lc 10 e nelle altre narrazioni (cfr Gv 11-12), pur presente, non proferisce parola. È sicuramente uno che sta commensale a tavola con gli altri (cfr Gv 12,1) ma si presenta come muto tanto che una poetessa lo definisce “figura indimenticabile nel silenzio” (Mariae Noel). Certamente è conosciuto, nella nostra Tradizione, soprattutto per essere il protagonista di quel segno, anticipatore della Pasqua di Cristo, che è la sua vivificazione da morte. Un segno che diventa messaggio per ciascuno di noi: saremo rinnovati se parteciperemo della Pasqua di Cristo. Ma possiamo allargare la concezione della sua figura. Per alcuni proprio il suo essere nascosto e muto lo denota come “figura mistica” (madre Righi, cistercense). Propongo la figura di Lazzaro, nella famiglia-comunità di Betania, come quel fratello che sta in disparte, o che è messo da parte e a tacere, o che si sente come abbandonato.

            Egli interpella oggi il nostro senso di solitudine. Lo avvertiamo? Come lo viviamo? Ci sentiamo soffocati o l’accettiamo vivendolo “nella Pasqua di Cristo”?

            Poniamo queste domande nella coscienza che può esistere un modo imprudente di dare risposta al bisogno, pur lecito, di compagnia e amicizia. Se non è vissuto nella piena consapevolezza di sé e nell’integrazione con i valori propri della vocazione, la ricerca di forme di “fraternità presbiterale” potrebbe diventare compensatoria, nella ricerca di risposte illusorie e irreali, anticamera di frustrazioni pericolose.

H. Nouwen indica, come primo snodo fondamentale per una vera “spiritualità nel mondo contemporaneo”, il passaggio dal vivere “come isolati” al vivere l’esperienza della solitudine in modo positivo, in quanto occasione per raggiungere il nostro io più profondo e, allo stesso tempo, quello più alto, per una comunione più piena. Isolarsi è una scelta di separazione, la quale va concepita prima come estraneazione dal senso vocazionale, poi come allontanamento fisico dagli altri, a favore magari di interessi personali ritenuti improrogabili. Vivere la solitudine in modo attivo significa invece viverla entro un orizzonte di senso coerente con la propria vocazione. Quindi come opportunità nuova e di approfondimento. Dalla Parola di Cristo, che disse «Lazzaro vieni fuori!» (Gv 11,43) sentiamo liberato e rinnovato anche il nostro senso di solitudine.

            Due considerazioni del noto psichiatra Vittorino Andreoli circa la solitudine del prete.

Mi piace l’umanità del prete. E in fin dei conti amo il sacerdote quando è fragile, mentre mi insospettisce talora il prete tetragono, che palesa una forza indistruttibile. La solitudine del sacerdote. La solitudine nascosta, la paura segreta, la voglia di un sorriso mentre riceve fedeli che non sanno piangere, bloccati nella paura. Non si tratta di dire che il sacerdozio è una funzione al limite dell’umano, ma certo l’uomo che diventa sacerdote, deve vivere in questo mondo con la debolezza dell’umano, anzi deve confrontarsi con la propria personalità, con i sentimenti che sono le caratteristiche proprie dell’uomo.

Il prete sa che la solitudine in qualche modo gli si impone se vuole cogliere i bisogni interiori dell’uomo e se desidera percepire anche quel vuoto che può essere riempito solo dalla relazione con Dio, come avviene nella preghiera.

            L’esperienza della solitudine quindi, per paradosso, diventa uno spazio da “proteggere” e da “salvaguardare” contro presenze invadenti e attività eccessive.

Ne deriva un’“arte di star soli” (cfr A. Grün) con domande di verifica per una qualità di vita. Come organizziamo il tempo? Siamo fedeli ad una “regola” che ci dà ordine? Diamo spazio alla contemplazione della nostra vita di fede? Curiamo aspetti di sano svago e di grande ricchezza e profondità quali: la lettura, il rapporto con la natura e il bello in generale?

Come Gesù

            Ci mettiamo ora a contemplare il volto di Gesù. Lo conosciamo come maestro itinerante, guaritore sempre disponibile, sempre in cammino, ecc. Nel racconto di Betania però lo troviamo come uno che, inversamente, si lascia curare o, secondo un linguaggio attuale, anche “coccolare”. Marta lo serve, Maria lo lascia parlare lungamente… e Gesù ne è felice. In altre parole Egli si affida a questa “famiglia-comunità”, accettando l’invito e dedicandovi tempo (prezioso). Anche questo è un segno di quell’abbassamento tipico della sua incarnazione nella condizione umana (cfr Fil 2,7). Se siamo chiamati a condividere gli stessi sentimenti di Cristo (cfr Fil 2,5) dovremmo allora considerare una virtù il lasciarci coinvolgere nelle proposte di fraternità e nelle attività del nostro presbiterio o la comunità di diaconato. È così? Come ci sentiamo in Cristo di doverci coinvolgere e di lasciarci condurre? Solo se c’è una partecipazione attiva a quelle proposte allora esse diverranno un vero compimento o una purificazione della nostra vita.

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