La strada dell’umiltà

Un monaco benedettino

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«Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» (1Tm 1,15).
La dichiarazione di Paolo potrebbe essere lo schienale della sedia del presbitero quando accoglie la confessione dei fedeli. Perché con tale esercizio il ministro intende aiutare i fratelli nel processo di conversione.
Già nel battesimo lo Spirito Santo ha immesso il germe dell’uomo nuovo; la grazia specifica del sacramento della confessione (o riconciliazione) è di rinnovare quella prima conversione, che viene perduta o offuscata con i peccati e con le infedeltà quotidiane.
Ma anche il ministro di questo sacramento ha il dovere di curare il proprio cammino spirituale; potremmo dire che ogni volta che egli esercita tale ministero, ha una nuova occasione per rinnovare il suo cammino di conversione. Paolo continua «Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (1Tm 1,15-16).
I Vangeli, all’inizio del ministero pubblico di Gesù, ci presentano una scena sconvolgente: Gesù si presenta a Giovanni Battista, confuso nella folla di coloro che «si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati… Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui» (Mt 3,6.13). Quindi Gesù
si mette in fila e si confonde con quelli che confessavano i loro peccati! Non potremo mai cogliere tutta la profondità di questo fatto (come, del resto, avviene per tutta la Parola di Dio, che deve essere attualizzata in noi dallo Spirito Santo).
Il ministro di questo grande sacramento – così in crisi oggi – deve prima di tutto cogliere se stesso come penitente,
credere nella potenza e nell’efficacia del sacramento, come strumento utile al cammino di conversione personale.
Nel rito orientale della penitenza, il sacerdote nel dare l’assoluzione ricorda che anche egli è peccatore: Figlio mio spirituale, sono un povero e umile peccatore; e perciò non sono in grado di rimettere sulla terra i peccati di chi si confessa presso di me, ma è Dio che li rimette. Per quel comando dato agli apostoli da Cristo dopo la sua risurrezione: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi…»; confidando dunque in quella parola, anche io ti dico: Tutto ciò che hai confessato alla mia povera persona e anche tutto ciò che, o per ignoranza o per dimenticanza non sei stato capace di confessare, qualunque cosa, Dio ti perdoni in questa vita e nel futuro.
E forse – per quella fantasia di Dio, che a volte ci sorprende all’improvviso – ascoltare l’esperienza e le difficoltà dei fratelli, può suscitare nel ministro delle domande su se stesso, può aiutarlo ad interrogarsi seriamente sul suo personale cammino di conversione. E così noi sacerdoti veniamo richiamati all’umiltà. Sappiamo bene che solo nel linguaggio degli autori cristiani l’umiltà è un ideale morale e religioso, alla luce di tutta la tradizione biblica. Nel latino classico humilis, riferito alle persone, è sinonimo di ignobilità, afflizione, infermità, poca importanza, e si usa sia per indicare l’oscurità delle origini o della condizione sociale, sia per i pochi mezzi economici, sia per la pochezza di carattere, ecc.; indica cioè uno stato servile, basso, volgare, miserabile, disprezzabile. Nella letteratura greca e romana le parole tapeinós e humilis esignavano in generale uno spirito vile, sentimenti servili che portavano al timore e all’adulazione; erano il contrario di magnanimità, nobiltà, sentimento della propria capacità.
Per i filosofi pagani l’umiltà non è stata mai un ideale. (Da qui però non è esatto dedurre che essi quasi coltivassero l’orgoglio, che anzi condannavano come vizio; invece raccomandavano una certa forma di modestia che chiamavano
sophrosyne = riconoscimento dei propri limiti). L’umiltà occupa un posto centrale nella teologia biblica. Gesù in persona proclama l’ideale dell’umiltà nel discorso della montagna; la dottrina che predicava non era interamente nuova, ma era preparata da una lunga tradizione dell’Antico Testamento. Gli anawîm (nel greco tapeinoi) – con i quali s’intendono tutti coloro che si trovano in uno stato di miseria, di abbattimento: poveri, deboli, piccoli, indifesi – godono del favore di Dio (cf. Gdt 9,11). Ricordiamo la famosa trilogia: «il povero, l’orfano e la vedova, il forestiero» che appare continuamente nella Bibbia: Dio esalta i miseri (i poveri) e abbassa i superbi (cf. 1Sam 2,7-8; Sal 145,7-9 e molti altri; i testi sono tantissimi).
Nel Nuovo Testamento i «poveri di Jahvè» sono i semplici, gli umili che accettano la salvezza portata dal Messia Gesù: i pastori, i popolani, i pescatori, Anna, Simeone e al vertice Maria, una figlia del popolo campagnolo, tanto disprezzato, della Palestina, su cui Dio fissa il suo sguardo: «ha guardato l’umiltà (= la povertà, la pochezza, l’insignificanza) della sua serva» (Lc 1,48 e si noti nei vv. 51-53 del Magnificat il linguaggio degli anawîm dell’Antico Testamento, soprattutto il parallelo con il cantico di Anna, madre di Samuele: 1Sam 2,1-10).
In tale linea è stata la vita e l’opera di Gesù, Figlio di Dio e di Maria di Nazareth. Gesù si presenta come il Messia dei poveri, degli umili, degli anawîm (cf. Lc 4,18-19 che cita Is 61,1-2) e proclama beati questi tali (Mt 5,3-6; Lc 6,20-21).
Solo coloro che si sentono piccoli come i bambini entreranno nel Regno (Mc 10,25; Mt 18,31; Lc 18,16-17); non bisogna occupare i primi posti (Lc 14,10); bisogna riconoscersi «servi inutili» (Lc 17,7-10). Gesù ripete la sentenza dell’AT
che Dio esalta gli umili e abbassa i superbi: «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Mt 23,12; 18,4;
Lc 14,11; 18,14). Gesù soprattutto insegna ciò in modo mirabile con il suo esempio; egli stesso si mette tra gli anawîm
e si offre come modello: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29).
Nella tradizione monastica si insiste molto sull’umiltà. Negli Apoftegmi dei Padri del deserto se ne parla molto. Solo qualche esempio. «Il padre Antonio disse: “Vidi tutte le reti del maligno distese sulla terra e dissi gemendo: Chi mai potrà scamparne? E udii una voce che mi disse: L’umiltà”»; «Un giorno il padre Macario ritornava dalla palude… ed ecco farglisi incontro lungo la strada il diavolo…
Gli disse allora: “Macario, da te emana una tale forza, che io non posso nulla contro di te; eppure faccio ciò che tu fai, tu digiuni e io non mangio per nulla; tu vegli e io non dormo affatto, vi è una sola cosa in cui mi vinci”. “Quale?”, gli chiese il padre Macario. “La tua umiltà; per questo non ho alcun potere su di te”». E ricordiamo qui la cosiddetta Preghiera di Gesù o Preghiera del cuore4, introdotta in Russia verso la metà del secolo XIV, che ha avuto le sue origini nei monasteri del Sinai fin dal VI secolo ed è diventata poi popolare con l’opera Racconti di un pellegrino russo5 (fine del secolo XIX). La forma primitiva sembra essere il Kyrie eleison. Tale preghiera si fonda sulle esortazioni dell’apostolo di pregare continuamente (1Ts 5,17; Ef 6,18) e sulla parola di Gesù: «Pregare sempre senza stancarsi» (Lc 18,1) e Vegliate e pregate in ogni momento» (Lc 21,36). La Preghiera di Gesù consiste nel ripetere incessantemente l’invocazione «Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, abbi pietà di me peccatore!», che richiama la preghiera del pubblicano (Lc 18,13) o il grido del cieco di Gerico (Lc 18,39).
Le forme possono variare, ma deve essere sempre una formula breve e fissa, che prenderà il nome di “preghiera monologica”. Ripeterla spesso fa bene anche a noi presbiteri. Nessuno è confermato in grazia. Del resto, nelle cose di Dio siamo tutti principianti e il nostro cammino spirituale dura tutta la vita. Se poi volessimo fare un passo avanti, noi sacerdoti, elevati per grazia di Dio ad una grande dignità, ma lasciati
– per la sua incomprensibile e insindacabile provvidenza
– nella nostra miseria e nella nostra debolezza, potremmo
provare a sentire come nostri i peccati dei fratelli e delle sorelle di cui ascoltiamo l’accusa.
Vorrei concludere ricordando un singolare episodio della tradizione ebraica dei hassidim. Il giovane Sussja aveva ricevuto dal Signore un dono particolare: se fissava in volto una persona vedeva i suoi peccati (!). Un giorno che un tale era venuto a parlare con il suo maestro, Sussja lo fissò e, vedendolo pieno di peccati, lo scacciò. Allora il maestro gli fece notare che era un dono pericoloso e che chiedesse al Signore di toglierlo. Ma i doni di Dio sono irrevocabili! Allora
egli chiese che glielo mutasse così: «… che da quell’ora in poi egli sentisse le cattive azioni degli uomini che incontrava come se fossero proprie e se ne attribuisse la colpa». Una volta, arrivato a una locanda, fissò l’oste sulla fronte e vide subito i suoi peccati di molti anni; «ma quando fu solo nella stanza… esclamò: “Sussja, cattivo Sussja, che hai fatto!…”. Ed enumerò i peccati dell’oste, ciascuno col luogo e il tempo in cui era stato commesso come se fossero suoi e pianse. L’oste aveva seguito segretamente l’uomo singolare, stava dietro la porta e sentì quel che diceva. Prima fu preso da un sordo stupore, ma poi il pentimento e la grazia l’illuminarono ed egli si destò a Dio».
Beh! Conoscere i peccati degli altri e piangerli come propri! E chi potrà riuscirvi?! Forse non è in nostro potere. Dio ci perdoni!

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