don GIOVANNI FRAUSINI
della Redazione di Presbyteri
È cosa scontata per noi cristiani in ogni situazione desiderare che Gesù sia il nostro maestro. Anche nel campo della spiritualità, per non prendere fischi per fiaschi, abbiamo bisogno di attingere alla Sua sapienza, anche pratica. Siamo infatti consapevoli che può succedere anche tra noi ministri ordinati che la spiritualità si trasformi in qualcosa di simile a quello che succede dopo aver attinto ai fiaschi…. Che la cosa non sia scontata anche per i migliori ce lo rivela il Nuovo Testamento quando ci racconta sia della richiesta fatta a Gesù perché insegni ai suoi discepoli cosa significa pregare, sia della fatica fatta a comprendere il cammino che Gesù stava facendo verso Gerusalemme e la sua croce.
Le parole si ammalano e certamente spiritualità è una di quelle che risente di una infinità di interpretazioni, che vanno dalla negazione a ogni richiamo di tipo spirituale, alla ricerca di esperienze che si muovono nella direzione di un’esaltazione dell’interiorità e del bisogno di senso, ma senza un Dio personale, senza un’appartenenza comunitaria e senza un’apertura ai fratelli.
Cosa intendiamo noi per spiritualità? Com’è strutturata la spiritualità di Gesù? Dove ha imparato?
Iniziamo subito dicendo che parleremo di spiritualità cristiana come dialogo con il Padre per il Figlio nello Spirito Santo, un dialogo che plasma tutta la vita del discepolo di Gesù: una spiritualità essenzialmente trinitaria. Una spiritualità che ti cambia la vita.
Se esistono diverse spiritualità cristiane, e sottolineo il se, esse devono necessariamente tutte ritrovarsi unite e concordi in questa definizione: le differenze sono del tutto secondarie, vere ricchezze per tutta la Chiesa, ma secondarie, assolutamente secondarie.
Interessante il titolo di un recente libro (Preti senza battesimo?) che pone esattamente questo problema. Può esistere un prete senza una spiritualità battesimale e trinitaria comune a tutti i cristiani?
Iniziamo con una prima questione: noi ministri ordinati, ve- scovi, presbiteri e diaconi, in quale rapporto siamo con la comunità cristiana e la sua spiritualità? Il nostro è un servizio alla comunità o uno stare dentro la vita della comunità per servir- la? La domanda potrebbe sembrare oziosa ma le prospettive che dalla risposta emergono sono divergenti. Se noi viviamo il nostro rapporto con la Chiesa come un semplice servizio ciò significherebbe che noi siamo sopra la Chiesa, che quello che ci distingue è ben più grande di ciò che ci rende simili. In questo modo di sentire e di vivere, il battesimo rimane sullo sfondo come un elemento secondario: non a caso continuiamo a parlare di speciale consacrazione, affidiamo alla stessa persona più comunità talora senza un attento studio del “come presiedere”, consideriamo il passaggio frequente da una parrocchia all’altra come un valore quasi assoluto e forse qualcuno di noi non festeggia neppure il proprio battesimo ma non dimentica certo l’anniversario di ordinazione ecc. Dall’altra parte, invece, se il nostro essere al servizio della Chiesa si colloca dentro il nostro essere discepoli e fratelli questo ci fa riconoscere nella fraternità cristiana il luogo e il metodo del nostro servizio.
La situazione che stiamo vivendo rischia di portarci a pensare di dover spenderci semplicemente per una infinità di servizi religiosi, con una grande generosità, felici di arrivare a sera stanchi morti perché ci siamo impegnati fino in fondo. Si arriva persino a sostenere che noi preti, vista la situazione, conviene che ci dedichiamo esclusivamente alla celebrazione della messa e alle confessioni (che non a caso chiamiamo così e non sacramento della riconciliazione o della penitenza) lasciando ad altri tutto quello che non è esclusivo potere di noi preti.
Tutto questo incide profondamente nel nostro dialogo con Dio e nel nostro vivere. Ricordiamo quei preti devoti che durante la messa celebrata da un confratello, nella più profonda solitudine, dicevano il breviario. Immagine questa di una Chiesa che è radicalmente divisa: i servitori e i serviti, i preti e non preti.
Credo che sia essenziale, innanzitutto, recuperare il nostro essere parte della Chiesa, fratelli oltre che ministri. Può sembrare banale, ma non è raro vedere una separa- zione della vita dal ministero, separazione espressamente negata dal Vaticano II il quale ha voluto che il servizio ministeriale fosse prima di tutto una vita di Chiesa e quindi un servizio alla comunità: non si può servire una realtà nella quale non si è profondamente inseriti. D’altra parte questa prima dimensione di fraternità è proprio ciò che siamo chiamati a realizzare anche come ministri: non siamo stati ordinati perché sentivamo di essere chiamati a questo, né per realizzare un nostro sogno di santità ma, come espressamente chiesto nella preghiera di ordinazione, siamo stati ordinati «per formare il popolo sacerdotale». La differenza dai laici sta nel fatto che i ministri ordinati sono chiamati a vivere la Chiesa nel luogo in cui sono inviati come vescovi-preti-diaconi. Va detto poi che per lavoro, studio e mille altre ragioni sono molti i cristiani che non scelgono la comunità nella quale vivere.
È evidente, quindi, che per realizzare la nostra missione abbiamo bisogno di essere esperti di comunità, di popolo sacerdotale. E come è pensabile essere esperti senza esperienza? Ecco la prima dimensione di una spiritualità autentica: vivere la vita della comunità cristiana, non solo servirla. Sono illuminanti le parole del grande vescovo Agostino il quale rivolgendosi alla sua comunità non temeva di dire che il nutrimento che egli offriva ai suoi fratelli era anche prima di tutto nutrimento per la sua persona: egli affermava di nutrirsi di tutto ciò di cui nutriva la comunità (cf. Omelia 339). Anche la promessa di celebrare la Liturgia delle Ore che abbiamo fatto nel momento dell’ordinazione diaconale (anche i preti e i vescovi sono stati ordinati diaconi) non parlava di un obbligo del breviario ma dell’impegno a celebrare la liturgia delle ore «insieme con il Popolo di Dio» e non solo per lui. La koinonia che descrive le relazioni nella prima comunità cristiana, rese ancora più esplicite nei piccoli quadri degli Atti degli Apostoli sulla Chiesa primitiva, non sono un sentimento o un’emozione ma uno stile di vita e di re- lazioni. Ci testimoniano che la Chiesa ha iniziato la sua vita non nelle strutture ma tra le cose semplici, nelle cose di tutti i giorni che i discepoli di Gesù hanno subito capito di dover condividere. È così che hanno imparato a vivere e testimoniare il Vangelo.
Mi piace ricordare un rettore che tanti anni fa diceva ai suoi seminaristi: «Chi non sa stare nei banchi non sa stare sull’altare!».
Qui sarebbe bene abbandonare quella fretta che vorrebbe fare dei seminaristi dei pre-preti mandandoli nelle parrocchie a svolgere “attività pastorali” ponendoli così
in una condizione non di fraternità ma di “seminarista in pastorale”. A mio parere sarebbe assai più utile educarli a vivere la vita ordinaria della comunità cristiana alla quale, se chiamati al ministero, dovranno condurre le comunità loro affidate. Naturalmente anche il servizio fa parte della vita ordinaria. Ma questa è un’altra storia!
Da dove attingere la spiritualità dei battezzati-ordinati?
Viene in nostro aiuto il Concilio che con una mirabile sintesi ci spiana la strada:
I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del corpo di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio; in quanto segni hanno poi anche un fine pedagogico. Non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati “sacramenti della fede” (Sacrosanctum Concilium 59).
Santificazione, edificazione della Chiesa, atto di culto: c’è proprio tutto. In queste tre parole possiamo trovare il fondamento della spiritualità cristiana. Santificazione: la nostra vita trinitaria; edificazione del corpo di Cristo: veniamo inseriti nel corpo di Cristo che è la Chiesa; atto di culto: tutta la nostra vita consegnata al mistero di Dio, nel- la sequela di Gesù. E tutto questo il Concilio afferma che avviene nella celebrazione dei sacramenti, nei suoi riti e nelle sue preghiere, in quella liturgia che, nella molteplicità dei suoi linguaggi e nel dispiegarsi nel tempo della sua celebrazione, ci dona l’esperienza del Mistero: siamo uniti a Cristo che compie il suo sacerdozio oggi e nell’eternità.
Se vogliamo imparare cosa significhi spiritualità abbiamo bisogno di lasciarci ammaestrare dalla liturgia dove in forza dello Spirito Santo che ci è donato veniamo coinvolti nell’azione sacerdotale di Cristo. Lo Spirito Santo, infatti, ci permette di entrare nella vita stessa di Dio. Colui che unisce il Padre e il Figlio e forma con il Padre e il Figlio il Dio che noi adoriamo fa di noi il popolo sacerdotale perché, come insegna la Dei Verbum (n. 2), Dio agisce nella storia degli uomini, e quindi anche e soprattutto nella liturgia «per invitarli e ammetterli alla comunione con sé». Una spiritualità legata al rito e alle preghiere della liturgia perché attraverso questo agire la fede non solo si esprime ma viene nutrita e irrobustita. Strumento quindi fondamentale. Vorrei ricordare che la liturgia non è fatta solo di celebrazioni eucaristiche ma innanzitutto di anno liturgico, liturgia dei sacramenti con al centro l’Eucarestia, la Liturgia delle Ore e dei sacramentali. Gesù stesso ci mostra il suo esempio di un uomo legato al ritmo liturgico del suo popolo: va in pellegrinaggio a Gerusalemme per la Pasqua, celebra la festa della dedicazione, ogni sabato va in sinagoga. Ma quando si celebra il Kippur, la festa dell’espiazione, ecco che il Nuovo Testamento non ci riferisce che Gesù abbia partecipato a questo momento così importante della vita di Israele: Gesù è ben consapevole che ormai tutto passa solo attraverso di lui e il suo sacrificio Pasquale. Occorre a questo punto accennare anche ad alcuni aspetti specifici della spiritualità dei ministri ordinati. Un primo aspetto riguarda la presidenza del vescovo e del presbitero. L’esercizio di un’attenta vigilanza su sé stessi sarà particolarmente utile per evitare che il vero protagonista di ogni celebrazione, Cristo, venga oscurato dal nostro narcisismo. Qui sarà particolarmente utile che noi stessi, preti e vescovi, coinvolgiamo la nostra vita e la nostra preghiera nei diversi momenti, come ci ricordano i vari momenti nei quali il presidente si rivolge a Dio sottovoce: segno evidente di una actuosa participatio che anche il presidente è chiamato ad esercitare nella liturgia che presiede, cosa utile a lui ma anche alla Comunità.
Il presbiterio: occorre coltivare la spiritualità della comunione che lega ogni presbitero al suo vescovo e agli altri presbiteri al servizio della Chiesa locale. Poi le tante spiritualità che coinvolgono ovviamente anche i ministri ordinati. Una ricchezza che il Concilio stesso mette in evidenza. Nel presbiterio esse potranno essere tutte presenti, arricchendolo così di esperienze e sensibilità diverse per offrire agli uomini del nostro tempo diverse vie per giungere tutti all’unica fonte di ogni spiritualità cristiana, Gesù Cristo Figlio di Dio e Figlio dell’uomo.
I diaconi, poi, agili e compatti tessitori di comunione in- torno all’Eucaristia, misura mai raggiunta della nostra vita cristiana. Per tutti i ministri ordinati una spiritualità legata alla Chiesa che serviamo: i santi delle nostre Chiese, le tradizioni ricche di vera fede, lontane da ogni tentativo di trasformare Dio in un vitello d’oro e soprattutto un amore incondizionato per la nostra Chiesa, vero corpo di Cristo, sacramento del nostro essere con Colui che ha dato sé stesso per noi e per tutti.
Ogni spiritualità che si dica cristiana deve avere necessariamente i connotati della trinitarietà, ovvero della interpersonalità, della comunione e non solo nella qualità della sua fonte e dei suoi effetti ma anche nelle forme e nella struttura di ogni organizzazione di vita. Ne devono e ne possono derivare quindi anche proposte molto concrete per una strutturazione del presbiterio. Il mistero trinitario infatti non solo si sperimenta nella Chiesa e attraverso i suoi segni di salvezza, i suoi sacramenti e sacramentali, ma an- che come Chiesa e cioè attraverso una modalità di vita che mostri – ancor più fortemente in ogni ministero – i segni di una mistica della comunione, di una vita di collaborazione, di un mutuo aiuto, di fraternità e amicizia vere e profonde. Così la spiritualità non sarà l’alibi per le nostre fantasie disordinate ma spazio di relazione con il Dio-Trinità e di amore divino nella Chiesa. Sapremo così distinguere molto bene i fischi dai fiaschi.