Paolo all’Areòpago di Atene (At 17,10-34)

don STEFANO ZENI della Redazione di Presbyteri

Il termine aggiornamento fu usato da Giovanni XXIII per determinare il «carattere fondamentalmente pastorale» del Vaticano II. Non significa un semplice adattamento, ma la penetrazione profonda del vangelo nella storia e nella realtà sociale nella Chiesa. Paolo VI, nella sessione pubblica tenutasi per promulgare l’Apostolicam actuositatem, il decreto sull’apostolato dei laici, precisò che aggiornamento equivale a «saggio approfondimento dello spirito del Concilio e adattamento fedele delle sue norme». La parola aggiornamento significò, all’inizio del Concilio e durante il suo svolgimento, aprire le finestre della Chiesa al mondo per riconciliarsi con esso, mettersi al suo servizio, e tradurre il messaggio cristiano alla cultura contemporanea.

Sulla scia di questo pensiero vorrei provare a leggere il brano nel quale gli Atti degli Apostoli raccontano il discorso di Paolo all’Areòpago, un testo attuale che pone il problema serio e significativo del rapporto tra cristianesimo e cultura. La prima cosa che vi invito a fare iniziando la lettura di queste pagine è alzarvi, aprire quella Bibbia che avete lì sulla libreria dietro di voi, e cercare At 17,16-34, un brano che può essere strutturato in cinque tappe.

Prima tappa: l’ambientazione (vv. 16-21)

Questi versetti ci presentano Paolo che gironzola nella città aspettando l’arrivo di Sila e Timoteo, che però lo raggiungeranno solo in un secondo tempo, a Corinto (cf. 18,5). Nel v. 16 Luca ci dice che Paolo «fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli», e la situazione doveva essere davvero impegnativa se Petronio, autore latino del I secolo d.C., nel Satyricon afferma che ad Atene è più facile incontrare un dio che un essere umano. Si comprende allora il motivo per cui un ebreo zelante come Paolo potesse indignarsi alla vista di tante raffigurazioni di divinità diverse.

Ad Atene, secondo una strategia missionaria consolidata, l’apostolo inizia la sua opera di evangelizzazione recandosi prima di tutto in sinagoga per poi spostarsi nella piazza (v. 17), immergendosi così in una pluralità di voci senza temere il confronto con le filosofie del tempo. Ciò è dimostrato dal fatto che Luca introduce la scena dei vv. 17-18 utilizzando il verbo dialegomai che spesso viene reso con «discutere», ma che in realtà significa «dialogare». Questo verbo fa la sua comparsa negli Atti a partire dal capitolo 17 ed è un termine importante che dice uno stile: non quello della predicazione e dell’indottrinamento, ma quello del confronto, dell’ascolto, del dibattito, del dialogo appunto. Paolo mette dunque in atto un processo dialogico con i suoi uditori e a noi è chiesto di fare altrettanto con chi ci vive accanto e ha un’altra cultura, un altro pensiero, altre idee, un’altra appartenenza religiosa. Questa mi pare una prima nota di aggiornamento che questa pagina degli Atti ci consegna. L’atteggiamento di Paolo ci propone due istanze molto concrete: gli altri vanno cercati dove vivono, senza pa­ura della di­versità e devono essere in­contrati ve­ramente, non con la pretesa di strapparli alla loro cultura per imporne loro una nuova, bensì adottando punti di vista differenti, sui quali si può costruire una sorta di prae­paratio evangelica. La frequentazione della piazza di­venta metafora di ogni tentativo intelligente di immissione nei canali della vita degli uomini, perché oggi più che mai occorre stare a contatto con tutte le componenti culturali che il mondo produce e fruisce. E anche su questo credo che dobbiamo riflettere, impegnarci e aggiornarci come Chiesa, anche alla luce della recente relazione di Sintesi della prima Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

Il nostro testo riporta due reazioni ai primi interventi di Paolo: alcuni lo ritengono uno spermologos, letteralmente un «raccatta semi», cioè un parolaio, un ciarlatano; altri invece lo considerano un annunciatore di divinità straniere dal momento che annuncia Gesù e «Risurrezione», una coppia divina che fino a quel momento era sconosciuta agli Ateniesi. E la cosa li incuriosisce. A questo punto Luca sposta la scena all’Areòpago, il luogo pubblico più famoso di Atene. L’apostolo viene condotto lì perché i suoi interlocutori vogliono sapere, hanno desiderio di conoscere di che cosa si tratta e Paolo accetta questa sfida culturale.

Prima di passare alla seconda tappa mi permetto di appoggiare qualche domanda: oggi sappiamo dialogare? Sappiamo trovare il tempo per dialoghi seri e importanti? La Chiesa è capace di dialogo sincero e autentico? Riusciamo a creare opportunità per dialogare di questioni di fede? Oggi la risurrezione interessa il cristiano medio? Ci incuriosisce? Se escludiamo il contesto delle celebrazioni funebri, è una questione teologica di cui si parla?

Seconda tappa: l’esordio narrativo (vv. 22-23)

Fin da subito Paolo cerca di propiziarsi il favore dei suoi uditori: «Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi» (v. 22), dimostrando un atteggiamento di simpatia verso la religiosità pagana. Le sue parole suonano come una captatio benevolentiae e possono essere considerate la base di una preparazioneevange­lica. L’apostolo prende spunto dall’altare dedicato al Dio ignoto, presenza abbastanza usuale nelle città greche, per arrivare subito al nocciolo della questione: «Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio» (v. 23). L’apostolo dichiara di non volersi limitare a far cono­scere Dio, informando i suoi uditori, ma ad annunciarlo e questa è una nuova prospettiva, anche per noi, perché la fede non è semplicemente lezione o dottrina o informazione o catechismo, ma deve essere annuncio, narrazione, testimonianza. E per questo è necessario aggiornarsi in merito ai contenuti e alle modalità di comunicarli.

Terza tappa: le argomentazioni (vv. 24-29)

Il testo continua presentando tre argomentazioni che Paolo fornisce per provare la verità del Dio sconosciuto agli Ateniesi. Anzitutto, rifacendosi al retroterra biblico, qualifica Dio come un creatore «che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene» (v. 24). L’apostolo non usa il termine «terra», ma quello più neutro kosmos, utilizzando un vocabolario proprio del pensiero greco allo scopo di catturare l’attenzione del pubblico. Paolo si rivela molto attento alla dimensione del linguaggio e la sua mi pare una provocazione anche per noi, chiamati a prestare particolare attenzione a questo aspetto, al modo in cui diciamo le cose. Spesso infatti il nostro linguaggio, paradossalmente, è così denso da non essere compreso, da non toccare le corde del cuore rischiando di scivolare via velocemente: troppo lontano dalla sensibilità, dalla mentalità, dal vocabolario comune e a volte perfino dalla vita. Oggi siamo chiamati, anche come Chiesa, a lavorare su questo aspetto, ricordandoci che cambiare linguaggio non significa cambiare idea, ma vuol dire invece trovare modi nuovi di dire le cose in cui crediamo e sulle quali poggia la nostra fede.

Nei vv. 26-28 abbiamo una seconda argomentazione. Dopo aver detto che Dio è creatore e Signore, Paolo presenta l’aspetto antropologico della questione: il rapporto tra Dio e l’umanità. Il testo dice che «da uno solo egli creò tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra» (v. 26a). L’espressione «da uno solo» in greco è ambivalente: può essere maschile, e completata con il termine «uomo», oppure neutra, e completata con il termine «principio» a seconda che si pensi all’Adamo di Genesi oppure al «principio primo» della filosofia. Ambivalente è anche il prosieguo del versetto: «per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio» (v. 26b). Anche questi due concetti possono ricevere una duplice interpretazione: per il pensiero biblico i tempi sono quelli della storia della salvezza (non a caso il testo usa kairos e non chronos) e i confini possono essere i vari territori assegnati alle nazioni; invece per il pensiero filosofico i tempi sono quelli cronologici delle stagioni e i confini sono i limiti naturali dell’uomo. Il v. 27 introduce una nuova finalità: la ricerca di Dio. È lo scopo dell’uomo e anche in questo caso si aprono due possibilità di comprensione: una ricerca esistenziale, dal punto di vista biblico, e una intellettuale, dal punto di vista filosofico. E sono valide entrambe. Dio vuole essere cercato e non si rivela subito e totalmente, ma sta sempre oltre, al di là di ogni fa­cile apparenza, al termine di un lungo cammino durante il quale gli uomini – sia quelli «biblici» che quelli «filosofici» – procedono a tentoni, senza avere la certezza di trovarlo. Ecco un altro aspetto peculiare della concezione biblica: un Dio vicino che non si può afferrare né possedere, il Dio che accompagna Israele nel deserto, davanti al quale bisogna coprirsi la faccia se si vuole restare in vita. Dunque, il mistero di Dio dice insieme vicinanza e alterità e forse questa è anche la nostra esperienza più concreta di Dio, un Dio che sappiamo essere vicino, che in molte circostanze sentiamo tale, ma che spesso percepiamo invece distante se non addirittura assente.

E siamo così giunti alla terza e ultima argomentazione, quella del v. 29. Questa affermazione riguarda l’inopportunità delle immagini ed è una condanna all’idolatria e alla sua pratica. Il senso è che il di­vino non si può ridurre e racchiudere in raffigurazioni ideate a fabbricate dall’uomo. Alla radice di questa polemica c’è l’esigenza di salvaguardare la trascen­denza di Dio, sottraendolo a ogni rimpicciolimento che lo faccia inferiore all’uomo e lo metta, per così dire, in suo potere. Paolo ricorda che è l’uomo creato a immagine di Dio e non Dio creato a immagine dell’uomo. In questo versetto l’apostolo pone l’accento sull’inadeguatezza di ogni rappresentazione di Dio, anche quelle affidate ai discorsi, perché qualsiasi parola su Dio è sempre inadeguata a esprimerne il mistero. Tuttavia questo non significa che non possiamo parlare di Dio, ma piuttosto che dobbiamo impegnarci a farlo con parole nuove, frutto di un aggiornamento serio e non rinchiudendo i nostri discorsi dentro un dogmatismo che rischia di spegnere il dialogo e annullare il pensiero.

Quarta tappa: l’epilogo (vv. 30-31)

I vv. 30-31 ci presentano la finale del brano. Dopo aver costruito il discorso giocando su un tono ambivalente, grazie al quale il monoteismo filosofico e la fede biblica potevano proce­dere di pari passo, Paolo prende posizione e dichiara che la fede cristiana non si può accontentare di tranquilli e comodi compromessi. Tre sono i pensieri fondamentali: Dio «passa sopra», cioè «va oltre» l’ignoranza religiosa, la non conoscenza, la mancanza, gli errori, ma chiede all’uomo la conversione; tale conversione è necessaria perché viene il giudizio escatologico; questo giudizio avviene per mezzo di un uomo che Dio ha eletto e fatto risorgere dai morti. E questa affermazione rappresenta il vertice della predicazione di Paolo, preannunciato al v. 18: Gesù e la risurrezione.

Quinta tappa: la conclusione (vv. 32-33)

A urtare gli ascoltatori non è l’annuncio del giudizio finale, ma quello della resurrezione. Paolo ha raggiunto i limiti del credibile: ha fatto il suo tentativo di annunciare Gesù risorto al mondo dei filosofi, un tentativo non proprio esaltante dal punto di vista del risultato. Se ragioniamo con la logica della proporzione sforzo-risultato è stato un fallimento, o perlomeno un passaggio a vuoto nella brillante carriera dell’apostolo. Ma evidentemente non è questa la logica dell’autore del libro degli Atti che ha pensato bene di non saltare questo episodio. Ma perché impegnarsi così tanto per raccontare un mezzo fallimento?  

Questi versetti ci presentano il volto di una Chiesa che osa, che non ha paura di dialogare, di cercare mezzi, strumenti e canali comunicativi nuovi per annunciare Dio nell’oggi del mondo. Per riassumere il messaggio dell’Areòpago, se non l’avesse già usata papa Francesco in altri contesti, potremmo usare l’immagine di una Chiesa in uscita capace di coniugare la teologia con la vita e di leggere l’una alla luce dell’altra in uno scambio reciproco. Ma per fare questo c’è un’unica strada: quella dell’aggiornamento serio, costante e continuo, non su tutto lo scibile umano, ma almeno sulle “faccende” che riguardano il nostro mondo e la nostra vita di presbiteri.

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