Alcune parole urgenti per la realizzazione di comunità aperte alla ministerialità
don MASSIMO GONI
della Redazione di Presbyteri
La Parrocchia Ministeriale potrebbe assomigliare ad un team di calcio? Si potrebbe fare un (azzardato) accostamento e cercare ciò che rende la squadra/parrocchia vincente?
Chi ama lo sport sa che una squadra necessita di giocatori che si muovano in sinergia, dopo essersi allenati lungamente. Per raggiungere il risultato sono però fondamentali, più che la forza fisica e dei singoli, alcuni elementi interiori e alcune virtù, quali ad esempio la motivazione e la comunanza d’intenti tra i giocatori.
In questo contributo vorrei offrire spunti di verifica circa la relazione tra i ministri ordinati e i christifideles laici, per l’esercizio della presidenza e l’attuazione della cura pastorale. Vorrei elencare (senza pretesa di essere esaustivi e ordinati) quelle qualità interiori e virtù che dovrebbero animare la “squadra della Parrocchia Ministeriale”.
Cosa sta alla base della decisione di aprirsi alla ministerialità e alle sue varie forme istituite o semplicemente riconosciute? Cosa rende la parrocchia una vera “comunità ministeriale”? Perché i presbiteri che hanno ricevuto una potestas giuridica dovrebbero condividerla o esercitarla in sinergia?
Ogni spunto spero possa essere di stimolo per una revisione di vita delle nostre realtà parrocchiali. Si dovrebbero interrogare sia i ministri ordinati e che i fedeli laici. Tutto questo potrebbe favorire anche una “purificazione” o “riconciliazione”, secondo lo spirito proprio del tempo giubilare che stiamo vivendo.
Il regista
In una squadra c’è chi detta i tempi di gioco, tiene unito il team, si confronta con l’allenatore e distribuisce gli ordini ai giocatori. È sicuramente lo Spirito Santo. Se non si parte dalla visione di una Chiesa mistero di comunione animata dallo Spirito, si rischia di cadere in logiche di socialità puramente umana. Bisogna garantire che le dinamiche siano veramente secondo lo Spirito e non semplicemente guidate dal principio della simpatia/antipatia, convenienza/perdita, piacere/sofferenza… È lo Spirito che: “chiama i figli”, li “unisce nella fratellanza”, li “vivacizza nell’amore” e li “invia nel mondo”. Tutti questi movimenti corrispondono ad aspetti della vita cristiana che vanno coltivati con azioni specifiche: dall’ascolto della Parola alla comunione fraterna con al centro l’Eucaristia, dall’operatività nella carità fino a trovarci “in uscita” sulle strade del mondo. Ciascun battezzato e ciascuna comunità dovrebbe tenere vive queste domande all’interno della propria preghiera fino al discernimento finale.
Quali sono i segni dello Spirito per noi? Quali povertà ci chiamano? A cosa siamo inviati?
Il portiere
Stiamo attenti a non farci autogol! Questo accade quando non amiamo la Chiesa. Quando non la difendiamo e finiamo per criticarla come fa il mondo. Essa invece è sempre quella “sposa bella di Cristo sposo” da amare sempre, nell’unione mistica di tutti i suoi membri: battezzati o in qualche relazione anche oltre i suoi confini visibili. Con a guida il papa. La Chiesa è da amare, non tanto come apparato organizzativo (funzionante o meno), o per la sua cultura storica, o per le tradizioni centenarie, ma secondo quello che diciamo sempre nel Credo Apostolico, in quanto è “una, santa, cattolica, apostolica”. In questo essa costituisce le membra del Corpo, di cui Cristo è il capo, inscindibilmente uniti. La relazione tra ministri ordinati e i fedelilaici è essenziale, ciascuno con le sue funzioni, per l’utilità comune. Insieme siamo il Popolo di Dio.
Amiamo la Chiesa nel suo essere? La amiamo affinché sia come un sacramento per il mondo, “segno e strumento” dell’amore di Dio che salva? Abbiamo consapevolezza della necessità imprescindibile di tutti e di una relazione viva tra ministri e battezzati?
Il mediano
C’è sempre chi corre su e giù, il vero motorino della squadra. Quello che suda tanti e tanti chilometri. Senza questo la squadra si spegne. Così diciamo che, oltre i valori spirituali, occorre garantire quella base umana che rende possibile la coesione a livello sociale. È la stima reciproca. È la necessità basilare di nutrire e coltivare un apprezzamento reciproco tra tutti: tra uomini o donne, giovani o anziani, ciascuno nella propria vocazione e anche secondo le proprie capacità. Quindi valorizzando tutte le diversità. Questa attitudine è fondamentale anche per poter riconoscere quei doni che lo Spirito suscita in ogni persona e in ogni comunità.
La ministerialità nella forma istituita non significa promozione o competizione coi ministri ordinati, ma riconoscenza per tutti quei doni che la chiesa vede, promuove, valorizza.
Possiamo chiederci: che idea hanno i parroci dei loro fedeli? delle donne? dei giovani? Quale valorizzazione offriamo loro? Ma anche i laici possono interrogarsi se pensano i preti come antiquati, misogini…? Se vale solo “il mio don”, oppure anche “quel don” che è stato mandato?!
Il bomber di sfondamento
Ci vuole un centravanti che apra le porte alle squadre avversarie! È lo spirito missionario che deve spingerci ad andare oltre. Non basta guardare a noi stessi e vivacchiare. Occorre la volontà di “aprire strade e porte nuove”. La ministerialità ha una sua ragion d’essere soprattutto nell’ottica missionaria, là dove i ministri ordinati non possono arrivare, non solo per questioni numeriche, ma anche per questioni di stato di vita o di competenze. Una vera ministerialità sarà possibile e giustificabile non tanto per mantenere lo status quo, ma per avviare nuove forme di evangelizzazione, negli ambienti di vita della ferialità: famiglia, luoghi di lavoro, mondo della cura e della sofferenza, ambienti culturali ed educativi…
Rischiamo (sia preti che laici) di “relegare” le funzioni ministeriali solo all’ambito liturgico o intra-parrocchiale (in sacrestia, come si diceva una volta)? Cosa ci serve per una conversione missionaria?
I giocatori di centrocampo
Qui si costruisce l’azione, collegando i reparti difensivi con quelli offensivi. Se tra loro non c’è intesa, con passaggi orizzontali e poi lanci in profondità, la squadra resta sfilacciata e aperta al gioco avversario. Crediamo cha questa azione consista nella capacità fattiva di dialogare tra le parti. Sia tra coloro che condividono le responsabilità, sia con tutta la comunità. Oggi si parla di conversione alla sinodalità che è un valore essenziale proprio della Chiesa comunione. Saper dialogare è cosa da realizzare sia nelle riunioni degli organismi di partecipazione (consiglio vari…) come anche nel piccolo: in particolar modo tra ministri ordinati e i fedelilaici. I ministeri istituti molte volte servono proprio da elementi di comunicazione, come un “centrocampo”, tra il popolo e il parroco.
Chi fa sapere a colui che guida, senza critica distruttiva, ciò che deve essere corretto personalmente o delle sue cocciute idee? Chi fa sapere alla gente i motivi di certe decisioni a volte “non popolari” o difficili da comprendere (come il cambio di quelle pratiche abitudinarie, ormai invecchiate e fossilizzate ma così tanto praticate)?
I giocatori difensori
Nella squadra c’è bisogno di tenacia da parte di tutti, per reggere anche all’urto avversario. Ciò potrebbe identificarsi con la disponibilità, da parte di tutti di condividere i propri talenti con perseveranza. Ciascuno, secondo lo spirito del Sacramento della Confermazione, deve dare il proprio contributo alla vita della comunità. Troppe volte assistiamo ad un cristianesimo “passivo” che si limita ad assolvere i precetti e che non diventa “attivo” ad operare per il bene della Chiesa.
L’identità battesimale è quella di Gesù, Figlio “amato e inviato”. Così occorre far crescere questa consapevolezza di figli, che si sentano amati dal Padre, ma anche da Lui inviati. Solo così saremo veri discepoli, in cammino sulla via della vita tracciata da Gesù. Solo così, insieme, riceveremo i beni promessi dal Signore.
Come far sì che ci sia posto per tutti? Quali ruoli speciali attivare, come ad esempio quello di facilitatori al lavoro comune o di mediatori al dialogo di gruppo?
Ma accanto a questo ci sta il giocatore che funge da difensore sull’altra parte. È la capacità di accoglienza che la comunità (non solo il presbitero) deve mettere in atto. Spesso si vivono sentimenti di gelosia o invidia che bloccano l’accoglienza di nuovi fratelli e la loro disponibilità a dare il proprio contributo. Questa accoglienza si deve manifestare nelle cose semplici, quali il salutarsi, il dare un posto davanti, inserirli nei nostri elenchi di whatsapp …, fino ad affidare incarichi piccoli ma concreti. Invece vediamo altrettanti gesti contrari, piccoli ma che generano esclusione: dimenticarsi di quella persona, lasciarla indietro o in disparte, non ascoltare il suo parere…
Come vigilare in questo senso?
Dalle ali arrivano gli assist vincenti
Proviamo a concludere questo semplice e forse bizzarro contributo, pensando a cosa può dare la spinta finale alla nostra “squadra ministeriale”, un po’ come fanno i giocatori che corrono lateralmente (le ali) per arrivare a lanciare la palla in mezzo (crossare). Spesso da qui arrivano i passaggi (assist) vincenti.
Identifichiamo questo dinamismo con l’atteggiamento della creatività pastorale, perché la Parrocchia Ministeriale non può vivere solo di rendita. Per sua natura essa è quella forma di Chiesa a servizio in Cristo dei bisogni umani “qui e ora”. Tali bisogni, sia a livello fisico-sociale che strettamente spirituale, richiedono sempre l’aiuto dalla Parola di Dio e dalla Grazia Sacramentale. La questione non è solo quella di “chi porterà loro questi doni”. Ci chiediamo: come li porta? con quale linguaggio? con quali metodologie? Si tratta di rendere vivo un annuncio in un mondo in divenire. L’opera della salvezza in Cristo deve poter arrivare ovunque e occorre reinventare le modalità, cogliendo le opportunità del momento. Almeno ci proviamo?
La creatività, che rinnova e sperimenta, va coniugata dall’altro lato con la fedeltà alla tradizione più vera e genuina. Non si tratta di demolire tutto il ‘vecchio’, quello che è sbagliato solo perché appare “di una volta”. In realtà ci sono vie dello Spirito sempre valide, da continuare a percorrere: canzoni da non dimenticare, usanze in ordine alla fede che sono ancora significative, dinamismi e ritualità che fanno parte della struttura antropologica dell’uomo di sempre… Magari si tratta di “restaurarle” un poco, aggiungendo qualche elemento che le renda più profonde, comprensibili e affinché non si riducano a folklore o pura superstizione. Ci sono devozioni sentite dal popolo che vanno coltivate e arricchite. Se il popolo le pratica significa che qualcosa di buono c’è, come indicato un po’ da tutti i papi anche dopo il Concilio Vaticano II, riconoscendo il valore della religiosità popolare. Anche qui c’è bisogno di ministeri adatti e ministri intelligenti.
Come finirà la partita?
Ogni buon allenatore ha sempre fiducia che la squadra possa migliorare, allenandosi e ricominciando anche dopo una sconfitta. L’opera di maturazione delle nostre parrocchie come comunità ministeriali, appare come una squadra in allenamento. Siamo all’interno di un sentiero lungo che a volte percorriamo lentamente, a volte sembriamo fermi e altre andiamo di corsa. A volte si assapora l’amaro come dopo una partita persa, perché le chiusure e le divisioni, un po’ da tutte le parti, hanno avuto il sopravvento.
A volte però si percepisce come una vittoria, quando si scopre che “insieme è meglio e di più”. Allora si avverte il vero dono dello Spirito, che consola gli animi, che porta a realizzare eventi significativi, che fa ardere i cuori, nei quali la gente dice: “che bello!”, “questo mi serviva proprio!”, “non è stato tempo perso!”… Perché quando ciascuno si mette veramente in comunione con gli altri, emerge un maior che supera la somma delle parti… e quando si sperimenta questo… tu senti la gioia.