Prebyteri 9_2021

CELEBRARE E VIVERE L’EUCARISTIA

Carissimi lettori,

l’Eucaristia sta certamente al centro della nostra fede e del ministero presbiterale. Come Redazione abbiamo deciso di ritrovarci attorno a questo tema non solo per la sua fondamentale importanza nella vita cristiana, ma perché il tempo della pandemia ha messo in luce anche in questo campo molte fragilità e inconsistenze nel nostro modo di celebrare, comprendere e vivere l’Eucaristia.

Questa monografia desidera dunque offrire una riflessione trasversale, basata sulla teologia del Concilio Vaticano II e sulla conseguente spiritualità eucaristica, per promuovere l’attenzione a una prassi liturgica coerente e pastoralmente efficace. Il presbitero ha un mandato e un compito importante, che richiede la consapevolezza e l’annuncio della centralità della relazione tra l’Eucaristia e l’assemblea celebrante, perché l’Eucaristia intercetti la vita e la vita cristiana abbia – attraverso e anche al di là del momento della Messa – una dimensione sempre più eucaristica.

Don Nico Dal Molin ci introdurrà al tema con l’Editoriale, seguono poi tre contributi di altrettanti docenti di liturgia per un accostamento da diverse prospettive.

Don Giovanni di Napoli, partendo dalle fragilità presenti nel vissuto ecclesiale ed emerse in questo periodo, propone una rivisitazione delle ragioni del ritrovarsi nella liturgia domenicale per rinnovare la consapevolezza di dover decisamente camminare sul tracciato delineato dal Concilio Vaticano II e reso praticabile dalla riforma della liturgia che ne è scaturita.

Don Angelo Lameri riflette a partire dalla formula di consegna del pane e del vino nel rito di Ordinazione dei presbiteri, rilevando come i quattro verbi chiave – ricevere, rendersi conto, imitare, conformare – delineino l’identità presbiterale a partire dalla logica del servizio al popolo santo di Dio e dalla umile disponibilità a lasciarsi trasformare da ciò che si celebra.

Infine Morena Baldacci si chiede quando possiamo parlare di “una bella Messa”, individuando come nota distintiva la bellezza della comunità che celebra, una comunità gioiosa che vive e celebra il mistero dell’amore di Dio che si dona in un tessuto di relazioni comunitarie.

 

Gli spunti di meditazioni sono offerti da don Alfonso Lettieri, membro della Redazione; la rubrica Gesti di condivisione è stata affidata su questo numero a Barbara Sartori, giornalista del settimanale della Diocesi di Piacenza-Bobbio; la rubrica Presbyteri digit@li è curata come sempre da don Giacomo Ruggeri. Infine nello spazio dedicato all’Unione Apostolica del Clero proseguiamo il nostro cammino con i Salmi della Liturgia delle Ore.

 

Con questo numero inviamo il nostro programma per l’anno che si apre (lo trovate anche sul nostro sito www.presbyteri.it). Vedrete che ci sono alcune novità, e che alla riduzione dei numeri monografici (6 a cui si aggiungono gli Atti del Convegno invece dei 10 usuali) non segue una offerta né un impegno minore da parte nostra. Confidiamo di venire incontro sempre di più alla vostra ricerca di formazione, non solo con le monografie cartacee, ma anche con la proposta del Convegno (che si terrà il 9 maggio 2022 a Roma sul tema della formazione permanente, sia in presenza che in streaming) e i contributi del nostro canale youtube, che verrà costantemente aggiornato.

Vi ricordiamo infine che è possibile pagare l’abbonamento on line, come anche comperare singoli numeri e contributi, e che per il 2022 ciascun abbonato potrà avere, oltre al cartaceo, anche la possibilità di sfogliare le monografie in formato digitale.

 

Buona lettura!

La Redazione

 

 

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o i singoli articoli:

Editoriale (leggi gratis)

 

Riuniti dal Signore (Giovanni Di Napoli)

Nella fase più acuta della pandemia nella primavera del 2020 le comunità ecclesiali si sono trovate di fronte all’inedita situazione di non potersi riunire per le celebrazioni liturgiche, in particolare l’Eucaristia domenicale. Se da una parte ciò ha messo in moto la fantasia pastorale per cercare, grazie ai mezzi oggi a disposizione, di mantenere unita la comunità, dall’altra ha messo a nudo fragilità già presenti nel vissuto ecclesiale, soprattutto in merito alla tenuta dell’Eucaristia domenicale in una società liquida e gassosa e in un contesto sempre più interetnico e interculturale. Dalla rivisitazione delle ragioni, viene – almeno ci si augura – la consapevolezza di dover decisamente camminare sul tracciato delineato dal Concilio Vaticano II e reso praticabile dalla riforma della liturgia che ne è scaturita.

 

Imita ciò che celebrerai (Angelo Lameri)

La liturgia porta a vivere un’esperienza iniziatica, ossia trasformativa del modo di pensare e di comportarsi. Alla luce di questa affermazione, l’articolo propone alcune riflessioni a partire dalla formula di consegna del pane e del vino nel rito di Ordinazione dei presbiteri. I quattro verbi chiave – ricevere, rendersi conto, imitare, conformare –  delineano l’identità presbiterale a partire dalla logica del servizio al popolo santo di Dio e dalla umile disponibilità a lasciarsi trasformare da ciò che si celebra.

 

Che bella messa! Il volto gioioso di una comunità che celebra (A. Morena Baldacci)

Quando si celebra una bella Messa? Lì dove si manifesta la bellezza della comunità che celebra, in quella comunità gioiosa che vive e celebra il mistero dell’amore di Dio che si dona in un tessuto di relazioni comunitarie. Oggi, la vera sfida non si gioca sulla partecipazione dei singoli ma nella partecipazione di tutta l’assemblea celebrante. Solo una comunità partecipante può essere quel segno credibile anche per l’uomo e la donna del nostro tempo.

 

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EDITORIALE


a cura di don NICO DAL MOLIN

 

Sul finire del periodo del primo lockdown, dopo che in tutte le comunità cristiane si era vissuto il tempo di quaresima e il triduo pasquale “a porte chiuse”, in un contesto che non aveva precedenti nella nostra memoria, l’Arcivescovo di Milano mons. Mario Delpini scrisse: «La Messa domenicale è insostituibile. Certo, si può anche guardare in televisione, ma nessuno si può scaldare guardando solo la fotografia del caminetto».

Appare evidente come questi mesi hanno modificato sensibilmente la vita di tante nostre comunità. Parecchie persone, forse per paura forse per pigrizia, hanno abbandonato la partecipazione personale alla messa nel “giorno del Signore”. Alcuni continuano a preferire la celebrazione in TV, non per necessità ma perché si è instaurata un’opportunità diversa, anche più comoda. Di fatto, le celebrazioni eucaristiche e sacramentali vedono comunità cristiane “scremate” nelle presenze, forse più “qualificate” nella partecipazione. Difficile dire se questa è una percezione corretta e duratura.

 

«Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1Cor 11,26).

Paolo scrive questo dopo una serie di rimproveri piuttosto duri sul modo di celebrare l’Eucaristia nella comunità di Corinto.

La sensazione diffusa è che, nonostante sull’Eucarestia siano state dette e scritte tante cose, nonostante l’arrivo del nuovo Messale, siamo “analfabeti” di fronte a questo immenso mistero di Amore.

Certo, ci possono venire in soccorso i testi delle liturgie domenicali, le celebrazioni del Triduo pasquale o della festa del Corpus Domini. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è di risvegliare in noi stessi e nelle comunità cristiane quel desiderio di “adorare” e quel bisogno di “contemplare” che ci aiuterebbe a vivere più riconciliati con noi stessi e con la vita.

 

Una “memoria” che guarisce le “memorie”

 

«Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me (…) Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (cfr. 1Cor 11,23-25).

Con queste parole, che nella liturgia sono riprese pressoché integralmente, Paolo descrive il dono dell’Eucaristia che Gesù lascia alla Chiesa.

«Fate questo in memoria di me». È una memoria che non si esaurisce nel concetto di ricordo psicologico e puramente soggettivo, ma che si propone costantemente come evento attivo, creativo e fecondo. Non è un an­dare dal presente dentro ai ricordi del passato, ma un venire sempre nuovo del passato dentro alla realtà del pre­sente.

Tutti noi corriamo il rischio di essere sempre più malati di amnesia e di cadere progressivamente in balia della dimenticanza, dell’oblio. Uno dei drammi del nostro tempo, ben presente anche in tanta parte della letteratura contemporanea, è il vuoto disorientante del non sapere più chi siamo, perché stiamo dimenticando le nostre radici profonde. È ciò che Martin Heidegger definisce come la “spaesatezza dell’essere”. Nel 1947, polemizzando con la concezione filosofica di Sartre, Heidegger affermò che l’uomo moderno si trova in una condizione di completa “spaesatezza”, nel senso che egli è del tutto privo di dimora spirituale[1].

Nella cultura attuale è sempre più pervasiva questa amnesia, vissuta come dissociazione tra vari aspetti della vita stessa: tra il proprio io e gli altri, tra pensare e sentire, tra ambiti di vita separati tra loro e vissuti come compartimenti stagni.

Un’amnesia che si fa “dis-locazione”, vera e propria frattura tra la storia personale e la tradizione a cui si dovrebbe attingere e che spesso è totalmente negata o rimossa[2].

Per uscire da questa trappola Martin Buber suggerisce un rimedio: «Basta porsi quest’unica domanda: “A che scopo?”. Ed ecco la risposta: “Non per me”. Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé».[3]

Citando la predicazione del Rabbi di Gher, nell’apertura del giorno dell’Espiazione, Buber scrive: «Perderò ancora tempo a rimuginare queste cose? Nel tempo che passo a rinvangare, posso invece infilare perle per la gioia del cielo!»[4].

Qualcuno potrebbe dire che siamo degli illusi o forse degli utopisti fuori dalla realtà, che si presenta invece così pragmatica, densa di cose da fare, incapace di fermarsi e di fare silenzio. Per questo possiamo avvertire più intensa la nostalgia di ciò che abbiamo perduto e che forse, con un po’ più di coraggio, potremmo recuperare ad una nuova freschezza e vitalità.

Celebrare e vivere l’Eucaristia può essere il momento di Grazia in cui la memoria del “pane spezzato” da Gesù riannoda i fili spezzati delle nostre esistenze.

 

Il pane della fragilità

Nel racconto del vangelo di Giovanni (6,51-58), Gesù si presenta con una pre­tesa eccessiva, perfino sconcertante: «Sono io che vi faccio vivere!». La reazione della gente e dei suoi discepoli è di dubbio ma anche di rifiuto netto.

Scrive padre Ermes Ronchi: «La sorpresa è che Gesù non dice: “Prendete di me la mia sapienza”. Non dice: “Bevete la mia innocenza, mangiate la santità, la divinità, il sublime che è in me, la giustizia assoluta, la potenza illimitata”. Dice invece: “Prendete la fragilità, la debolezza, la precarietà, il dolore, l’intensità di questa mia vita”».[5]

Questo è Gesù: un Dio che conosce i senti­menti del cuore umano, la paura e il desiderio; che ha pianto e ha gridato la sua angoscia al cielo.

È quasi un Dio minore, ma è solo diventando figli di questo Dio minore che egli diventa il «nostro» Signore.  Non si può giungere alla divinità di Cristo se non passando attraverso la sua umanità, la sua carne e il suo sangue.

Mai come in questo tempo ci è chiesto di vivere il ministero della misericordia e della consolazione. Nella vita che le persone ci consegnano, in un gesto di totale fiducia, ci confrontiamo (loro e noi) con diffuse “zone d’ombra” che hanno bisogno di essere esplorate e riportate alla luce, accettate, benvolute e riconciliate.

La consolazione e la misericordia, ma soprattutto il perdono, guariscono l’uomo, lo rimettono in piedi e in cammino, gli ridanno autonomia.

Questa libertà ritrovata, che è innanzitutto interiore e spirituale, è evidente nel racconto della guarigione del paralitico (Mc 2,1-12). Entrato in quella casa grazie all’aiuto degli altri e adagiato in una barella, l’ex paralitico ne esce da solo, camminando e portando sotto braccio il suo lettuccio. È un dettaglio importante. Ogni passato di fragilità, di malattia, di vulnerabilità non può essere rimosso, non può e non deve essere cancellato. Lo si può e lo deve portare con sé, come un bagaglio prêt-à-porter, che non intralcia il cammino.

Ci sono molte persone, forse ancor più in questo tempo così faticoso e pesante, che vivono come paralizzate, bloccate. Non riescono ad uscire da sé stesse, si aggrovigliano attorno alle loro paure, alle loro insicurezze, ai loro rimpianti.

Celebrare e vivere insieme l’Eucaristia dona la fede e la forza per non lasciare che il passato gestisca e limiti il presente. La barella che il paralitico guarito porta con sé, gli ricorda il suo passato di fragilità, ma gli spalanca anche un orizzonte su un futuro nuovo di libertà.

Forse dovremmo imparare a ridire in modo nuovo e più libero i presupposti fondamentali della vita, soprattutto la precarietà, la creaturalità e la fragilità, di cui tutti stiamo facendo esperienza diretta. Non si può prescindere da essi.

Il cammino riparte da qui, a qualsiasi età della vita. Siamo tutti invitati ad alzarci, a percorrere la nostra strada con il Signore Gesù, sapendo che in qualsiasi momento egli può dirci: «Alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua!»[6].

 

 

Celebrare e vivere il grazie

 

Lo “shabbat” ebraico era il giorno del ricordo e della gratitudine. Era il giorno della celebrazione della creazione e della memoria grata per la liberazione dall’Egitto e la Pasqua ebraica. Tra gli argomenti che giustificano la deroga all’osservanza sabbatica si trova quello che afferma che le leggi date da Dio, quindi anche la legge del sabato, sono state date perché l’uomo viva grazie ad esse e non muoia a causa loro. Quanti scontri da parte di Gesù con i farisei in questo ambito.

La vita, ogni vita, è un grande regalo. Anche S. Paolo afferma sorpreso: «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,7).

Ci saranno sempre uomini e donne che vedranno nella vita solo un grande male, un grande buco nero, un insieme di brutte esperienze. Tutto ciò ha a che fare con una visione fatalistica della vita stessa, con una rabbia interiore che dilania e lacera tutto, dentro e fuori di sé.

Non dobbiamo scordare che in questo mondo esistono le ombre proprio perché la luce brilla. Dolore e gioia sono soltanto i colori diversi della vita e dell’amore, e spesso si fondono e si sovrappongono fra loro.

Il protagonista del romanzo La gioia di Georges Bernanos, il signor Clergerie, viene definito come «un uomo nato per una carriera e non per una vita». Eppure, nel romanzo, anche lui si esprime in maniera sorprendente: «Io accetto tutto da Dio, come quando ero bambino; ogni sabato udivo a scuola leggere i miei voti e pensavo: anche questa volta sono stato risparmiato»[7].

La gratitudine va oltre questa espressione. Essa significa fiducia nel presente e speranza per il futuro perché riconosce i sempre nuovi e inaspettati doni dell’amore.

È necessario ritrovare, davanti a Dio e ai fratelli, il senso del rendimento di grazie, ritrovare un cuore “eucaristico”!

Dei dieci lebbrosi guariti da Gesù, soltanto uno tornò a ringraziare, ed era un samaritano (Lc 17,11-19). Dire grazie sta diventando una merce sempre più rara.

Solo le persone umili e dal cuore semplice possono riconoscere la gratuità dei doni ricevuti, vivere e celebrare la gioia del ringraziare.

È una sfida aperta sia per i presbiteri che per le comunità cristiane: non è più solo questione di “dire messa” o “andare a messa”. Il cammino ha un orizzonte preciso: tornare ad essere comunità eucaristiche in cui si possa celebrare e vivere ciò che scrive il poeta statunitense Walt Whitman: «Tieni il viso rivolto sempre verso il sole e le ombre cadranno dietro di te»[8].

 

 

[1] Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2005.

[2] Cfr. l’analisi sulla “condizione sull’uomo nucleare” proposta da Henry J.M. Nouwen, Il guaritore ferito, Queriniana, Brescia 1982, 9-20.

[3] Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnano (BI) 1990, 50.

[4] Ibidem, 52.

[5] Ermes Ronchi, in Avvenire. Nella «fragilità» di Dio il segreto della vita, 22 maggio 2008.

[6] Cfr. Anselm Grün, Scoprire la ricchezza della vita, Queriniana, Brescia 20084.

[7] Georges Bernanos, La gioia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2021 (ed. originale La Joie, La Revue universelle, 1928).

[8] Walter Whitman (1819-1892) è stato un poeta, scrittore e giornalista statunitense. È considerato il padre della poesia americana. La sua opera più famosa è la raccolta poetica Foglie d’erba, così come è sua la celebre poesia O capitano! Mio capitano!, che fa da filo conduttore al film di Peter Weir L’attimo fuggente (1989).

 

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