Presbyteri 1_2022

Il BISOGNO DI PADRI

Crissimi lettori,
all’insegna del colore verde si apre la nuova annata di Presbyteri, la numero 56 della storia della nostra Rivista. Come sapete, da quest’anno Presbyteri passa da 10 a 7 numeri annui; uscirà con scadenza bimestrale (6 monografie) a cui si aggiungeranno gli Atti del Convegno che terremo il prossimo 9 maggio sul tema della formazione permanente.
Con questo numero la Rivista è consultabile e scaricabile per gli abbonati anche in formato digitale, è sufficiente iscriversi nella sezione dedicata che trovate sul nostro sito (www.presbyteri.it) utilizzando il codice abbonato personale posto sull’etichetta con cui vi è stata inviata la rivista cartacea oppure, per chi ha fatto l’abbonamento con pagamento online, inserendo il numero d’ordine.
Apriamo l’anno affrontando il tema della paternità, già oggetto in passato delle nostre riflessioni, ma ripreso ora in occasione dell’anno dedicato a san Giuseppe, che si è chiuso l’8 dicembre scorso. La Lettera del papa Patris corde ci stimola a riflettere sulla figura del padre, non solo del padre biologico che genera alla vita, ma di tutti coloro che accompagnano la crescita di qualcuno, come è chiamato a fare anche il prete.
La monografia intende guardare al tema da una duplice prospettiva. Prima della chiamata ad “essere padre”, il presbitero rimane figlio, debitore di vita, e non si può essere veramente e pienamente padri senza riscoprire e custodire la propria figliolanza. Per questo ci lasceremo guidare da don Lello Ponticelli in un itinerario alla riscoperta della figliolanza/paternità nella duplice direzione delle sue radici psicologiche e teologiche.
All’esercizio di una paternità da parte del presbitero sono invece dedicati i contributi di padre Giancarlo Pani, che vi riflette alla luce del ruolo svolto da Giuseppe nella famiglia di Nazaret, e di Chiara Griffini, che ci parla della “paternità generativa” in relazione alla comunità a cui si è inviati.
Abbiamo infine ritenuto utile un confronto con altre esperienze di paternità, in primis quella propria del padre di famiglia, ma anche dell’educatore, e su questo ci parla Roberto Contu.
Don Nico Dal Molin ci introdurrà al tema con l’Editoriale; gli spunti di meditazione sono offerti da mons. Luigi Mansi, membro della Redazione e presidente UAC. L’annata si apre con due nuove rubriche. Nel Convegno da noi promosso nel maggio 2021 uno dei nostri relatori ci ha invitato a ricorrere alla letteratura per poter «formare e rieducare il nostro immaginario», nello specifico «rieducarsi (e rieducare) a valori e immagini che rafforzino l’identità del prete».
Per questo andremo alla ricerca di figure presbiterali presenti nell’ambito della letteratura, che mostrino (in positivo o in negativo) quale immagine di prete emerge, quali valori incarna, come viene rappresentato nelle sue relazioni e nei suoi valori.
Iniziamo con il contributo del professor Dino Campaldini che ci guida a rileggere la figura e le parole di padre Mapple in Moby Dick di Herman Melville.
La seconda rubrica si chiama Cattolici in politica; sarà curata per tutto l’anno dalla professoressa Daria Gabusi e ci aiuterà ad inquadrare meglio profili di donne e uomini cattolici che si sono impegnati in politica, evidenziandone il dato biografico e motivazionale, il loro modo di coniugare politica e religione, i pilastri e le finalità del loro impegno. Su questo numero ci occuperemo di Laura Bianchini (1903-1983).
In questo numero trovate anche la brochure e tutte le informazioni per partecipare al nostro Convegno sulla formazione permanente dei presbiteri, il 9 maggio prossimo. Potrebbe essere davvero una bella occasione per incontrarci e per scambiare delle idee che possano aiutare le nostre Chiese a camminare in questo ambito, per noi così importante.
Ringraziandovi per l’attenzione che ci dedicate anche quest’anno, vi invitiamo a visitare il nostro sito: troverete anche un breve video di presentazione di questa monografia a cura di don Nico Dal Molin: un’altra novità che speriamo sia di
vostro gradimento e da condividere attraverso i vostri social.

Buona lettura!

La Redazione

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Prima figli, poi padri (Raffaele Ponticelli)
Non si può essere veramente e pienamente padri, senza riscoprire e custodire la propria figliolanza! Come realizzare questo? Il contributo suggerisce un itinerario nella memoria, quasi un’introspezione orante e meditabonda, alla riscoperta della figliolanza/paternità nella duplice direzione delle radici psicologiche – la famiglia di origine – e quella delle radici teologiche – la figliolanza da Dio –. Ma lo sguardo è lanciato anche ad altre figliolanze: verso la propria terra, il proprio ambiente, il contesto ecclesiale e verso i volti che maggiormente rappresentano la paternità oggettivamente e/o soggettivamente – il Vescovo, il padre spirituale, il confessore, un confratello… –. È una sorta di “viaggio spirituale” per riconciliarsi con la propria storia, come invita a fare Papa Francesco nella Patris Corde, ma anche per sviluppare una memoria grata, “organo” non solo del passato, ma del futuro. Lungo i sentieri percorsi si intravedono anche i tratti del volto di paternità che si vuole ricevere e offrire. Alla fine si suggeriscono alcune delle caratteristiche della formazione di cui i preti hanno e sentono bisogno, per crescere nella dimensione di una paternità che accetti anche le sfide più delicate e difficili di una Chiesa in uscita, ospedale da campo, lievito di fraternità.

“Con cuore di padre”: dalla paternità di Giuseppe a quella del presbitero (Giancarlo Pani)
«Giuseppe ha amato Gesù con cuore di padre»: nella sua vita, egli si è assunto la responsabilità e i doveri propri di un padre, perché – afferma papa Francesco – si è davvero padri quando ci si prende cura del proprio figlio e lo si ama. Che cosa significa tale paternità? Alla luce del ruolo svolto da Giuseppe nella famiglia di Nazaret, ci chiediamo che cosa possa suggerire a un presbitero la sua paternità e quale aspetto presbiterale offra per chi è al servizio del Signore e dei fratelli.

Per uno scambio di doni. Promuovere la paternità pastorale (Chiara Griffini)
Il presbitero, come ogni uomo, è un figlio chiamato alla generatività. Oggi è urgente rimettere al centro della formazione umana iniziale e permanente dei presbiteri la chiamata ad essere padri. La loro è una paternità generativa che si esprime in “essere per gli altri” nel dono di sé, prendersi cura di ciò che si genera, il legame con la comunità, il lasciar andare per un nuovo passaggio nella comune appartenenza alla stessa Chiesa diocesana. Si può comprendere bene la paternità pastorale guardando alla vocazione di chi è padre nell’adozione e nell’affido. Allo stesso tempo però il presbitero scoprendosi padre può anche essere a sua volta un richiamo prezioso a chi è padre nella genitorialità familiare: saper connettere il figlio alla comunità, perché un figlio nasce per essere dato al mondo, come suo abitante, come figlio di Dio.

Il padre, la guerra e l’amore (Roberto Contu)
L’esperienza della paternità, così come quella dell’insegnamento, educano quotidianamente al rapporto con la complessità, alla prossimità alla radice stessa del senso dell’esistere, dell’amore e della guerra, del riconoscimento nell’alterità, della chiamata a rifondarsi sulla propria fonte, prima di farsi tale per chi ci è stato affidato.


EDITORIALE

don NICO DAL MOLIN

C’è una cosa che, durante il tempo natalizio, piace molto ai bambini ma piace tanto anche agli adulti: visitare i presepi. In passato si notava molto più interesse ed entusiasmo anche nell’allestire il presepe. C’era qualcosa di rituale e di magico quando, nelle nostre famiglie, assieme al papà, i bambini erano direttamente coinvolti in questa esperienza. Era una operazione in cui la creatività aveva una parte importante, perché molto spesso c’era in ballo il primo premio per il presepe più bello della parrocchia, se non del paese.
Altri tempi? Forse sì. Rimane comunque suggestivo approfittare del tempo delle festività natalizie per ammirare qualche presepio.
L’ho fatto anch’io, e non ne sono rimasto affatto deluso. In particolare, in una chiesa ho trovato un presepe che mi ha colpito, pur nella sua impostazione tradizionale.
Lo sguardo era subito attratto dalla luminosità e dal rilievo che aveva la scena della Natività di Gesù, anche perché le statue erano piuttosto grandi. Ogni elemento scenografico era ridotto all’essenziale, perché occhio e cuore potessero sostare nella contemplazione del mistero del Natale. Vicino al Bambino c’era la statua della Madonna, in un atteggiamento di grande tenerezza. Il volto di Maria era molto bello ed esprimeva con intensità questa sua dolcezza.
Mi aveva incuriosito, invece, la collocazione seminascosta della figura di Giuseppe, nell’ombra, quasi sfuggente, dietro l’arco di una grande colonna romana. Di lui si intravvedeva solo la parte inferiore della tunica, la lanterna luminosa che portava in mano e una parte del bastone da viaggio.
«Come – ho pensato tra me – si è appena concluso l’anno dedicato a San Giuseppe e già lo facciamo sparire?»
Mi sono avvicinato e, nella penombra, ho visto un cartello che, a prima vista, non avevo notato. Ho fotografato il testo e lo riporto alla lettera: «Caro visitatore, ti sarai chiesto perché la figura di San Giuseppe è così poco visibile. È una scelta voluta, perché questo è il modo sobrio con cui i vangeli parlano di lui. Di lui non si ricordano parole ma gesti concreti. È lui a scegliere, contro ogni logica umana, Maria come sua sposa. È lui ad accompagnarla nel pericoloso viaggio da Nazareth a Betlemme, per adempiere al censimento indetto da Cesare Augusto. È grazie al suo coraggio che Gesù potrà sfuggire alla terribile strage dei bambini voluta dal re Erode. E sarà dalla sua concretezza di padre che Gesù potrà imparare il difficile mestiere di essere uomo. C’è un piccolo suggerimento per te che stai osservando questo presepe: la figura di San Giuseppe non si scorge finché rimani in piedi, ma quando ti inginocchi anche la sua figura avrà l’evidenza e il rilievo meritato. Buon Natale e buon anno».
Straordinario. Ho subito pensato che in quella modalità rappresentativa c’era la sintesi di ciò che Papa Francesco ha donato alla Chiesa con la lettera apostolica Patris corde. Padre amato, padre nella tenerezza, padre nell’obbedienza, padre nell’accoglienza, padre dal coraggio creativo, padre lavoratore, padre nell’ombra.

Padri nell’ombra
Nella lettera, introducendo questo paragrafo per descrivere la paternità di Giuseppe, si dice:


Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro “L’ombra del Padre”, ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi (…) Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti (PC 7).

Essere padri nell’ombra. È una espressione provocante, che porta a riflettere e che potrebbe aiutare non poco a ridefinire il profilo del ministero presbiterale. Essere padri, presenti, ma senza nessuna ostentata visibilità, senza invadenza. Non vale solo per i presbiteri, vale anche per qualsiasi persona che assume l’impegno di prendersi cura di qualcuno.
Quando si è troppo presenti, in maniera ossessiva, puntigliosa, si toglie il respiro al bambino e non si lasciano crescere i figli. Occorre permettere loro di cadere per potersi rialzare, per imparare a camminare. Essere padri nell’ombra non significa assenza, ma rispetto della libertà di un figlio per renderlo capace di scelte, di libertà di partenze. Significa mandare un messaggio importante per ogni educatore: «Io ci sono, sono vicino a te e puoi contare su di me in ogni momento, ma non voglio e non posso invadere la tua vita. Non voglio e non posso farti crescere a mia immagine e somiglianza».
Il poeta libanese Khalil Gibran scrive:

I vostri figli non sono figli vostri. Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa (…) Potete dar loro tutto il vostro amore, ma non i vostri pensieri. Perché essi hanno i propri pensieri. Potete offrire dimora ai loro corpi, ma non alle loro anime. Perché le loro anime abitano la casa del domani, che voi non potete visitare, neppure nei vostri sogni (…) Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono scoccati come frecce viventi.


Cosa resta del padre?
È il titolo provocante e suggestivo di un famoso libro dello psicanalista Massimo Recalcati. Sul padre si è detto e scritto di tutto, ed è vero che il ruolo paterno, oggi, è profondamente cambiato. Fino a qualche tempo fa, il padre era una figura fondamentalmente assente dal percorso di crescita dei figli e il suo ruolo educativo si giocava sostanzialmente attraverso comandi e punizioni. Chi non ricorda la tipica frase delle mamme, che calmava immediatamente gli animi: «Se non la smetti, stasera lo dico al papà!». I bambini avevano paura del padre che, con le sue sgridate e i suoi castighi suscitava sensi di colpa e, spesso, lontananza affettiva.
Ma il tempo del padre-padrone è finito perché l’autoritarismo ha perso legittimità e interesse. Oggi, non sempre purtroppo, i padri cercano di essere presenti nella vita dei figli e sono alla ricerca di un modo tipicamente “paterno” per aiutarli a crescere.
Si è passati, però, da un estremo all’altro. Trascorsa l’epoca del padre si è passati all’epoca del figlio, caratterizzata da un eccesso di cura, di ansia, di preoccupazione rispetto al benessere dei figli, con la conseguente rinuncia da parte dei genitori al loro ruolo educativo, in particolare quello paterno.
Così sono i bambini che, spesso, danno comandi agli adulti e sono investiti della responsabilità di decisioni che non possono né debbono spettare a loro.
Non è facile essere buoni padri e neppure buone madri.
La crisi dell’adultità, che riguarda paternità e maternità insieme, di fatto si configura come crisi di autorità e ancor più come crisi di autorevolezza, cioè di credibilità.
Una condizione essenziale per un recupero di autorevolezza e credibilità presuppone che i genitori vivano uno stile di “coesione”. Papà e mamma devono decidere insieme le regole e le strategie educative; per fare questo occorre parlarsi, condividere e mostrarsi uniti. Spesso si parla di tutto tranne che di come educare i figli. Vivere la coesione significa riferirsi l’uno all’altro e fare un gioco di squadra che abbia come finalità l’autonomia dei figli.
Non è che queste riflessioni possano fare bene anche al mondo dei presbiteri? Spesso il servizio pastorale è vissuto in maniera molto autoreferenziale, con una latente presunzione che quello che decidiamo noi vada bene per tutti. Una buona paternità pastorale si alimenta e cresce nella capacità di empatia e di ascolto. E in questo senso le sollecitazioni non mancano.


Dignità, passione, amore
Sto concludendo queste note dopo aver seguito, come molti tra noi immagino, i funerali del Presidente del Consiglio europeo, David Sassoli, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma.
Nell’omelia del Card. Zuppi e nelle testimonianze della moglie Alessandra e dei figli Giulio e Livia emerge un ritratto commovente e denso di messaggi per ogni paternità. Ne ripropongo qualche tratto con alcune parole del figlio Giulio.

Ciao papà. In questi giorni abbiamo provato a cercare tanto parole per cercare di raccontarti e per costruire un ritratto quotidiano, staccato dai tuoi impegni lavorativi. Sono tre le parole che in questi giorni frenetici e di confusione mi girano nella testa. Dignità … la dignità di chi non ha mai fatto pesare la malattia a nessuno né ora né anni fa. “Sì, ma io c’ho da fa”. Questo continuavi a ripetere a tutti in ospedale (…)
E poi passione. Passione per il tuo lavoro, per le tue sfide. Ci insegni che avere passione vuol dire coltivare la sensibilità e la cura per le piccole cose. E poi la passione per le persone, per le storie delle persone, cosciente che da ognuna si possa imparare e che ognuna meriti di essere ascoltata.
E infine amore. Forse la parola forse più banale, ma che nelle tue ultime ore hai ripetuto più spesso, con le tue forze, con i tuoi ultimi sospiri. (…) Mi ha colpito perché fino alla fine non sei stato in grado di cedere allo sconforto e fino alla fine ci hai parlato di speranza. E allora cercheremo di proseguire con quello che ci hai insegnato, con idee forti ma dai modi gentili, curiosi e coraggiosi, nel tuo ricordo, col tuo sorriso. Buona strada papà. E, mi raccomando, giudizio.


Sono le parole di un figlio al proprio papà, e custodiscono una eredità preziosa che mai potrà essere dimenticata.
Sono un augurio di speranza e di buon cammino che possiamo farci in questo inizio ancora faticoso di un nuovo anno. Che in questo contesto di passaggio, in cui ci è dato vivere, possiamo non perdere l’entusiasmo, ma raccogliere con discrezione e consapevolezza le sfide che si presentano, per trasmettere a quanti si affidano a noi il coraggio e la fiducia che lo Spirito del Signore dona a ciascuno di noi.
C’è bisogno di padri nella fede che testimonino l’entusiasmo e la determinazione interiore per affrontare il mare aperto dei cambiamenti.
C’è bisogno di padri nella speranza che siano esploratori umili e perseveranti, capaci di fissare lo sguardo su una terraferma che è sempre oltre, sempre futura, in avanti.
C’è bisogno di padri nell’amore che non posseggano sempre tutte le risposte, ma che, nell’ascolto, sanno cogliere il senso profondo delle domande.
C’è bisogno di padri dal cuore sapiente che siano il riflesso del volto della paternità di Dio.


La paternità di Dio è amore infinito, tenerezza che si china su di noi, figli deboli, bisognosi di tutto. Il Salmo 103, il grande canto della misericordia divina, proclama: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso coloro che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (vv. 13-14).

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