Presbyteri 1_2025

PRESIEDERE MA NON DA SOLI

Don Nico Dal Molin, editorialista, presenta il primo numero dell’annata 2025 della rivista Presbyteri.

Carissimi lettori,

bentrovati in questo nuovo anno!

La nostra Rivista si presenta a voi in veste rinnovata, ma con il suo “carattere” di sempre, che mette il presbitero e la sua formazione in primo piano, cercando di approfondire temi e sfide particolarmente importanti per la Chiesa e il mondo di oggi.

Nel nostro Convegno dello scorso maggio siamo stati invitati a guardare alle nostre comunità con uno sguardo che va “dal progetto al processo” per non rischiare di lavorare sulla figura del parroco e sulle nuove ministerialità replicando soltanto modelli già presenti.

Iniziamo dunque l’anno interrogandoci sulla funzione di “presidenza” della comunità: essa spetta al presbitero, ma avviene con il concorso di tutti, perché anche i laici, donne e uomini, possano esercitare la loro responsabilità, differenziata in base alla identità sacramentale e al mandato pastorale ricevuto. Perché ciò si realizzi, c’è bisogno di chiarezza sul ruolo del presbitero, ma anche di processi di discernimento comunitario e percorsi umani e relazionali che portino a superare reciproche paure e diffidenze per mettersi tutti a servizio del Vangelo e della missione.

Anche quest’anno l’Editoriale sarà a cura di don Nico Dal Molin, segue un contributo di don Pasquale Bua che parte dalla presidenza eucaristica per ricomprendere sulla scia del Concilio Vaticano II, il protagonismo liturgico della comunità, i cui membri, mentre offrono se stessi in unione a Cristo, concorrono tutti all’offerta del sacrificio eucaristico. Don Livio Tonello riflette sul percorso sinodale in atto per ricavarne una comprensione diversa delle identità ecclesiali e delle modalità di partecipazione alla comune missione. Il quadro viene completato da due riflessioni che partono dal vissuto: don Celestino Riz offre una serie di spunti a partire dalla sua esperienza di “multiparroco” chiamato a guidare 11 parrocchie nella Diocesi di Trento, mentre Emanuele Curzel riflette dal punto di vista di un laico sulla presidenza della celebrazione e il ruolo dell’assemblea.

Iniziano con questo numero due nuove rubriche che ci accompagneranno in quest’anno. La prima è dedicata al rapporto del prete con la teologia e viene aperta da un contributo di don Andrea Toniolo sulle sfide teologiche che coinvolgono l’identità, la formazione e la missione del presbitero oggi. La seconda rubrica è dedicata alle tematiche dell’anno giubilare in corso e si apre con una riflessione sulla speranza offerta dal Vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla.

Buon anno con Presbyteri! Benvenuti ai nuovi abbonati e benritrovati a chi ci segue da più tempo, grazie per l’attenzione e la fedeltà alla nostra Rivista. Vi ricordiamo che potete farci avere vostre riflessioni che nascono dagli articoli pubblicati; provvederemo ad allestire sul nostro sito uno spazio apposito.

Buona lettura!

La Redazione



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La liturgia, epifania di un corpo «ben compaginato e connesso» (Ef 4,16) (Pasquale Bua)
L’articolo, dopo aver rammentato l’estraneazione liturgica della comunità che ha connotato il cattolicesimo fino all’ultima riforma liturgica, attinge alcune indicazioni dal Concilio Vaticano II. Da una parte, il principio dell’actuosa participatio del popolo di Dio alle celebrazioni, sostenuto da Sacrosanctum Concilium, aiuta a comprendere che la Chiesa si rivela nella liturgia come raduno e fraternità strutturata. Dall’altra parte, la riscoperta del sacerdozio battesimale, realizzata da Lumen gentium, permette di comprendere il protagonismo liturgico della comunità, i cui membri, mentre offrono se stessi in unione a Cristo, concorrono tutti all’offerta del sacrificio eucaristico.

Il coraggio di coinvolgere (Livio Tonello)
Il percorso sinodale avviato mette in campo molteplici dimensioni, attori, metodi, procedure e riforme. Il cambio di impostazione presuppone una comprensione diversa delle identità ecclesiali e delle modalità di partecipazione alla missione. Cambia la figura del parroco, chiamato ad uscire da un immaginario secolare. Essere pastore non significa essere l’unico responsabile e capace di assorbire tutte le funzioni, ma vivere la dimensione diaconale nei confronti dei fedeli che gli sono affidati, individuando e valorizzando i carismi e i servizi presenti. La presidenza della comunità è del parroco, tuttavia, come accade per l’Eucarestia, essa non è un atto isolato, ma un’azione condotta con il concorso di tutti. Il coinvolgimento dei battezzati nell’esercizio della corresponsabilità avviene in maniera strutturata negli “organismi di consiglio”, luoghi ecclesiali deputati ad esprimere la partecipazione alla missione della Chiesa e in specie alla vita della propria comunità cristiana. Coinvolgere non è allora questione di “coraggio” ma una grande opportunità per vivere con maggior coerenza il Vangelo e la missione di ciascun battezzato.

La presidenza di un “multiparroco” (Celestino Riz)
L’esperienza di un parroco di undici parrocchie viene letta alla luce di come egli stesso intende ed esercita la presidenza. Nella linea di una Chiesa sinodale è soprattutto nel modo con cui si elaborano e si prendono le decisioni, sia pastorali che gestionali – amministrative delle parrocchie, che si manifesta lo stile del pastore che cammina con il popolo. È il “consensus” che va cercato e questo risolve anche tante questioni che oggi si dibattono a livello teorico e disciplinare. La testimonianza viva di come si giunga al consenso permette di intravvedere un nuovo esercizio della presidenza del parroco. Ciò richiede un’autentica conversione, ma libera anche nuove risorse e ridona soddisfazione alla vita di un presbitero, oggi sottoposto ad un sovraccarico sproporzionato di compiti.

Presiedere collegialmente, a cominciare dalla liturgia (Emanuele Curzel)
È al ministro ordinato che spetta il dovere di far risuonare la Parola di Dio; sono le donne e gli uomini presenti in quel luogo e in quel momento i protagonisti della liturgia eucaristica. Sono le riflessioni di un laico per il quale sono questi i punti a partire dai quali lavorare per ridare sostanza alle nostre messe. E, partendo da lì, a tutto il resto.


Editoriale

don NICO DAL MOLIN

Ai primi di dicembre di ogni anno è pubblicato il Rapporto sociologico del Censis, giunto alla sua 58° edizione, che legge e interpreta i più significativi fenomeni socio-economici e culturali del nostro Paese e dei nostri stessi stili di vita. Rimango sempre stupito di fronte agli slogan e alle immagini con cui i sociologi, discepoli del fondatore Giuseppe De Rita, riescono a creare un identikit puntuale e anche un po’ inquietante di ciò che ciascuno di noi sta vivendo, talvolta senza averne una reale consapevolezza. Scrive Antonio Polito, editorialista del Corriere della sera:

Intendiamoci, nessuna profezia di sventura. Il Censis fa il suo mestiere e ci racconta l’Italia come farebbe un pittore impressionista: per come la vede. «Società del rancore», «sovranismo psichico», «furore di vivere», «ruota quadrata», «società irrazionale», «Italia malinconica», «un paese di sonnambuli»: sono solo alcune delle metafore dei rapporti di questi ultimi anni che si sono succedute e talvolta accavallate (…) Eppure siamo ancora qua a confermare il paradosso del calabrone, che così pesante e con ali così piccole non dovrebbe volare, eppure vola[1].

La conclusione a cui giunge Polito è semplice ed è estendibile anche al contesto di vita ecclesiale: abbiamo tutti bisogno di uno scatto di volontà per tornare a camminare insieme, unendo energie e risorse. E abbiamo bisogno di una leadership che promuova questo con convinzione e con dedizione.

Quasi certamente la prospettiva che l’editorialista propone troverà tante, forse troppe resistenze nell’ambito sociale, economico e politico della nostra complessa realtà nazionale. Ma questa stessa proposta vale anche per il cammino ecclesiale in cui siamo impegnati. Che cos’è la sinodalità se non questo? Un mettere insieme idee, energie, risorse e, soprattutto, voglia di condividerle. Credendo possibile e creando le condizioni per una leadership ministeriale (o una “presidenza”, come suggerisce il tema della monografia) che promuova i processi di condivisione, anziché frenarli; che cerchi la collaborazione di tanti anziché avvalersi dei pochi e soliti “volti noti” che vivono di compiacenza; che impari a cercare, a valorizzare idee e persone oltre lo stretto perimetro degli ambiti conosciuti e frequentati.

Diversità e unità

«Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,4-7).

Conosciamo bene questo testo di Paolo. Egli scrive ad una comunità, quella di Corinto, che è stata motivo di parecchi momenti di sofferenza, di lacrime, di insegnamenti a più riprese, ma che è anche una comunità vivace ed entusiasta dei doni dello Spirito.

Doni che sono ripartiti e distribuiti, non accentrati solo in pochi o in uno soltanto.Ci suggeriscono gli esegeti che il termine comunemente tradotto con “diversità”, letteralmente significa “ripartizione”, “suddivisione”, e appare solo in questo contesto nel Nuovo Testamento. Lo stesso verbo “ripartire” compare solamente nella parabola del Padre misericordioso, il quale “ripartisce”, cioè divide i beni tra i suoi due figli: «Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze» (Lc 15,12). Una espressione che evoca l’idea di una ricchezza che non appartiene al destinatario, ma a colui che la dona; ed è una ricchezza distribuita fra diverse persone, anzi, fra “tutti” (v. 6b). I vari carismi sono ricchezze che provengono da Dio stesso, come i talenti che non sono da sotterrare ma da far fruttare (cfr. Mt 25,14-30).

Paolo parla di “carismi, servizi e attività”. Per essere vissuti secondo l’intenzione dello Spirito, questi doni debbono misurarsi con l’utilità del bene comune e tradursi in impegni, in servizi concreti che implicano il coinvolgimento delle nostre forze, poche o tante che siano.

Con un promemoria ben fisso nel cuore: è Dio che «opera tutto in tutti» (v. 6b). Non ci può essere posto né per l’orgoglio personale né per alcuna forma di autoreferenzialità, come Paolo afferma nella stessa lettera: «Chi dunque ti dà questo privilegio? Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,7).

Lo esprime bene, con il suo immancabile tocco di leggerezza, Christian Bobin: «Vedere, sentire, amare. La vita è un pacco dono di cui sciolgo i nastri ogni mattina al risveglio»[2].

L’importanza del “Noi”

C’è un dipinto che descrive bene il disagio e il desiderio profondo dell’uomo d’oggi: è L’Urlo (Skrik) di Munch. Edvard Munch realizza questo dipinto dopo una passeggiata sulla collina di Ekeberg, a pochi minuti dal centro di Oslo[3].

È l’urlo che squarcia tutto il Novecento, è il grido che si leva forte anche oggi nella nostra società sempre più in balia di una drammatica e talvolta patologica solitudine del vivere. Una condizione esasperata dai nuovi “media” che ci offrono opportunità meravigliose ma che ci illudono di essere più connessi, quando in realtà siamo sempre meno in relazione con gli altri. La solitudine attuale non è di tipo esistenziale, perché essa è fortemente una solitudine relazionale. I legami sono andati progressivamente frantumandosi sotto i colpi dell’individualismo diffuso e di un concetto di libertà individuale che ha reso sempre più problematici tutti i legami, in particolare quelli primari e familiari. Quando i legami diventano incerti, instabili e reversibili, ciascuno di noi diviene estremamente fragile. I social network possono dare l’illusione di poter esorcizzare la solitudine interangendo con più individui contemporaneamente, ma il grande rischio è quello di disabituare le persone a vivere relazioni personali, stabili, vive, umanizzanti[4].

La filosofa Giorgia Salatiello, nel descrivere alcune di queste dinamiche, prende lo spunto da una citazione di Joseph de Finance: «Qui non si tratta più tanto di vivere l’uno per l’altro quanto di vivere l’uno e l’altro per il Noi»[5].

Che cos’è questo “Noi” nel quale si può individuare l’essenza stessa dei legami umani e della stessa esperienza ecclesiale? La prospettiva suggerita è di imparare a cogliere il “Noi” come superamento dei tanti individualismi ed egoismi diffusi. È una questione di “sguardi”, un modo nuovo di vivere la relazione personale e comunitaria: non ci si guarda più soltanto l’uno verso l’altro ma, insieme, si cerca di costruire un “Noi” che dà un orizzonte diverso e un inatteso valore alla singola persona e ad ogni altra relazione umana.

Scrive la prof.ssa Salatiello: «Nel “Noi” di una esperienza di comunità cristiana, come pure nella stessa realtà della famiglia, ogni alterità va rispettata e non può essere fagocitata in un vano tentativo di simbiosi che priverebbe ciascun soggetto della sua irripetibile peculiarità»[6].

Come nella famiglia, così anche nell’esperienza comunitaria le differenze permangono e sono quelle che conferiscono ricchezza e fecondità ad un cammino comune.

La gioia della comunione-condivisione

Si fa ancora molta festa quando i nostri ragazzi vivono il momento della “prima Comunione” e dei vari passaggi sacramentali della iniziazione cristiana; ed è bello e giusto che sia così. Credo, però, che si dovrebbe fare molta festa per ogni gesto di condivisione, di servizio, di solidarietà, di carità che viene fatto. E sono molti di più di quelli che si possono immaginare. Sono gesti che, in gran parte, non compaiono nelle pagine dei giornali o nelle news dei telegiornali, a meno che non si concludano in tragedia, come spesso capita con testimoni impegnati a portare un segno di speranza nelle terre più martoriate del nostro pianeta. Allora la gente si accorge che c’è qualcuno capace di fare comunione, di vivere non a parole ma con i fatti la condivisione.

Ho già avuto modo di ricordarlo qualche anno fa, proprio sulle pagine di Presbyteri: non potrò mai dimenticare il mio primo incontro con la comunità di Taizé[7]. Era il lunedì dell’Angelo della settimana in albis. Assieme ad un gruppo di seminaristi eravamo arrivati alla comunità di Taizé e siamo entrati nella “Église de la Réconciliation” nel momento della preghiera serale. Davanti a noi c’era una folla di giovani che insieme pregavano, cantavano e vivevano lunghe pause di silenzio. Dopo tutti i riti solenni della Settimana santa eravamo incantanti dalla semplicità di quel modo di pregare, di leggere e ascoltare la Parola di Dio che si alternava con le melodie dei canoni che ti coinvolgevano tutto, dal di dentro. Ricordo, in particolare, come si siano impresse nella mente e nel cuore due parole che frère Roger Schutz, fondatore della Comunità, ripeteva incessantemente nelle preghiere, nel­le riflessioni, nelle testimonianze: rèconcilier e partager: riconciliarsi e condividere.

Da quel momento ho capito come questo sia il segreto di un “Noi” in cui, camminando insieme, tutti si sentano corresponsabili della vita e della missione dell’essere chiesa. Sarà solo un’utopia o un sogno che si può realizzare? In un messaggio di saluto alla comunità del SERMIG di Torino, così scrive frère Roger: «Se tu osassi vivere gesti concreti di perdono, di condivisione, di pace e di riconciliazione, quale festa potrebbe essere questa per gli uomini e le donne che, con te, avessero l’audacia di confidare in Cristo, talvolta anche senza comprendere niente di più di ciò che comprende un bambino»[8].


[1] A. Polito, Noi, la medietà e un Paese che galleggia, in Corriere della sera, 7 dicembre 2024.

[2] Christian Bobin (1951 – 2022) è stato uno scrittore e poeta francese, vincitore del premio Prix des Deux Magots nel 1993 e del premio Prix de l’Académie Française nel 2016.

[3] Di questo quadro esistono quattro versioni, tutte dipinte da Munch tra il 1893 ed il 1910; la più famosa è quella conservata alla Nasjonalgalleriet di Oslo.

[4] È illuminante il testo di Mario Salisci, docente di Sociologia dei processi culturali all’università LUMSA di Roma: Fragili. La costruzione dell’identità nella società liquida, Franco Angeli, Milano 2018.

[5] J. de Finance, A tu per tu con l’altro. Saggio sull’alterità, traduzione a cura di B. Alberti, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004.

[6] Cfr. G. Salatiello, L’importanza del Noi, in “Osservatore Romano”, 2 aprile 2022.

[7] Cfr Presbyteri 2020/1, Editoriale, Migranti, uno dei volti di Cristo oggi.

[8] Frère Roger Schutz, priore di Taizé, lettera al SERMIG di Torino, 7 febbraio 1976.


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