Presbyteri 6_2023

AGGIORNAMENTO IN CORSO…

Carissimi lettori, siamo giunti all’ultimo numero di quest’anno 2023. Vi ringraziamo per la fedeltà e per la stima crescente che ci avete riservato, salutando in particolare i nuovi abbonati di quest’anno, e vi chiediamo, se lo vorrete, di continuare a leggere e a diffondere la nostra Rivista. Sul nostro sito trovate le modalità di pagamento dell’abbonamento che rimane invariato anche per il 2024: 40 euro per i nuovi abbonati; 50 euro per il rinnovo. Quest’anno trovate anche la possibilità di far giungere l’abbonamento a Presbyteri come regalo di Natale, con un vostro messaggio di accompagnamento.

In questa monografia ci occupiamo della tematica dell’aggiornamento. La tecnologia con cui abbiamo quotidianamente a che fare richiede di essere spesso aggiornata; nel mondo del lavoro non c’è crescita professionale senza continui corsi di aggiornamento. E nella nostra vita di ministri sacri?

In questo numero ci interroghiamo se anche tra i preti, i vescovi e i diaconi questa esigenza è sentita, richiesta e favorita, quali sono gli strumenti attraverso cui ci si aggiorna e quali gli atteggiamenti necessari perché sia un percorso fruttuoso. Siamo convinti che l’ascolto della vita delle persone e degli eventi detti l’agenda non solo delle cose da fare, ma anche dei temi che hanno bisogno di approfondimento e conoscenza, per un servizio ministeriale sempre più attento e capace di comunicare la fede.

Dopo l’Editoriale di don Nico Dal Molin, mons. Roberto Tommasi presenta alcuni aspetti dell’aggiornamento ed esamina alcuni caratteri del cambiamento d’epoca che caratterizza il momento attuale, segnalandone le ripercussioni nella vita della Chiesa. Don Lello Ponticelli risponde alla domanda sul “perché” dell’aggiornamento e delle resistenze ad esso, indicando in umiltà, passione e preparazione tre atteggiamenti fondamentali per il ministero. Paola Bignardi richiama la necessità di imparare “la lingua dell’umano” per farsi capire anche dai più giovani e generare una nuova cultura ecclesiale.

Gli spunti di meditazione sono offerti da don Stefano Zeni, della Redazione di Presbyteri; la rubrica sulla vita del prete in chiave “sapienziale” affronta il tema del vuoto, con le parole di don Marco Vitale. Si conclude con questo numero anche la rubrica su “I frutti della Laudato si’”, curata da don Mimmo Roma e dai suoi collaboratori con un articolo che mette in relazione la Laudato si’ con l’Agenda ONU.

Nelle pagine UAC il Presidente don Stefano Maria Rosati riassume il percorso di quest’anno nella prospettiva di passare il testimone al rinato Centro Studi dell’UAC, che d’ora in poi ne curerà la programmazione.

Con questo numero vi anticipiamo anche il tema e i relatori del nostro 5° Convegno, che si farà nelle mattine del 27 e 28 maggio prossimi (la data è slittata di una settimana rispetto a quanto annunciato nel programma 2024 inviato con il numero 5) in modalità esclusivamente on line. Data l’attualità del tema e la rilevanza dei relatori, confidiamo di poter dare in quella occasione un utile contributo di riflessione e di formazione.

Rinnoviamo il nostro GRAZIE per quest’anno; auguriamo un tempo natalizio colmo di fede e speranza e vi aspettiamo su queste pagine con la programmazione del nuovo anno. Infine chiediamo ancora il vostro aiuto per diffondere, consigliare, regalare Presbyteri.

Buona lettura!

La Redazione


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Aggiornarsi “da preti” (Roberto Tommasi)
Dopo aver presentato alcuni diversi aspetti di «aggiornamento » quale «operare per essere all’altezza della novità del giorno» si esaminano alcuni caratteri del cambiamento d’epoca che caratterizza il giorno attuale, segnalandone le ripercussioni nella vita di una Chiesa che è nel mondo, ma non del mondo. Di qui l’esigenza di cercare un modo in parte nuovo di vivere il ministero del prete perché corrisponda al meglio alla chiamata del Vangelo e alle istanze degli uomini e donne di oggi. Donde l’irrinunciabile compito – per i preti, i ministri ordinati e tutto il popolo di Dio – di un aggiornamento continuo e permanente stimolato dal vissuto ministeriale, atto a far evolvere e crescere la coscienza ministeriale, a formare l’attitudine a co-operare e dialogare fraternamente nella Chiesa e nella società e a favorire un continuo approfondimento della cultura biblico-teologica e nell’ambito dei saperi umani che abiliti a vivere con umile fiducia, secondo il cuore di Dio, la propria vocazione nella missione della Chiesa.

Umili, appassionati, preparati (Lello Ponticelli)
Perché aggiornarsi? Perché le resistenze e, talvolta, la demotivazione? Come potremmo desiderare e vivere l’aggiornamento? Come “obbligo” dell’amore e della carità pastorale, ma anche un’opportunità di ben-essere e bene-stare per la missione: stare bene con Dio, con noi stessi e con gli altri; stare dentro e star bene nelle sfide della contemporaneità, perché e purché il Vangelo sia annunciato e testimoniato. L’aggiornarsi, però, suppone e favorisce umiltà, passione, preparazione: una triade che può costituire un itinerario del discepolato permanente del prete per rispondere e corrispondere alla sua seconda chiamata. Urge, tra l’altro, sgravare il ministero da ciò che lo rende obeso: attualissima sfida della nostra missione. Proviamo a cogliere tutto come una vera e propria pro-vocazione.

Imparare lingue nuove (Paola Bignardi)
Le lingue, come tutte le espressioni umane, mutano, si trasformano, invecchiano. Anche quelle della fede. Se le lingue dei cristiani non si aggiornano, danno soprattutto ai più giovani l’impressione di trovarsi nella comunità cristiana come in un paese straniero. La lingua che occorre imparare è quella dell’umano, e dell’umano di oggi; quella che riflette il quotidiano e le sue esperienze fondamentali. In fondo, è la lingua usata dal Vangelo. Le parabole sono specchio della società del tempo di Gesù. La lingua dell’umano ha tanti registri: quello della narrazione, dei sentimenti, della bellezza, del dialogo. Occorre impararla; si impara nella vita, con metodo e disciplina, superando resistenze e pregiudizi; creando alleanze tra esperienze ecclesiali diverse, per diventare non semplici fruitori di lingue nuove, ma generatori di una nuova cultura ecclesiale.


Editoriale

don NICO DAL MOLIN

Aggiornamento in corso … non spegnere il computer. L’esempio con cui è stata presentata questa monografia è puntuale e significativo. Sono le parole che compaiono con una certa frequenza sugli schermi dei nostri pc, ogni qualvolta c’è bisogno di installare funzioni nuove o aggiornamenti al sistema operativo del computer.

Sarebbe utile, forse necessario, che di tanto in tanto comparisse anche per noi una indicazione di questo genere, che ci chiede di fare un “pit stop” per un aggiornamento teologico, spirituale, pastorale o, più semplicemente, per una ricarica di umanità.

Per i preti non sono previsti dei CFP, cioè dei “crediti formativi professionali” obbligatori per la formazione continua da rispettare, come in uso per la maggior parte delle categorie professionali. Il rischio è che ci si consideri esentati “a vita” da una formazione continua e da un costante aggiornamento, che tocca i tanti aspetti del ministero pastorale di un presbitero. Non significa diventare dei “tuttologi” che parlano di tutto e che presumono di sapere un po’ di tutto; ma non significa neppure pensare di vivere perennemente di rendita, alla luce della formazione avuta negli anni di seminario. Né è un impegno che riguarda solo i primi anni del ministero.

Piuttosto è un dovere di responsabilità e di coscienza per ogni prete saper cogliere quelle opportunità che vengono offerte nei percorsi della formazione permanente.

Una responsabilità personale e comunitaria

Nel discorso che Papa Francesco rivolse ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dalla Congregazione per il clero, il 7 ottobre 2017, egli diceva:

«Il primo e principale responsabile della propria formazione permanente è il presbitero stesso» (Ratio n. 82). Proprio così! Noi permettiamo a Dio di plasmarci e assumiamo «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù»(Fil 2,5), solo quando non ci chiudiamo nella pretesa di essere un’opera già compiuta, e ci lasciamo condurre dal Signore diventando ogni giorno sempre più suoi discepoli[1].

La parola “aggiornamento” è indicativa ma non esaustiva. Essa ha a che fare con un dinamismo temporale che richiama il “giorno dopo giorno”, la quotidianità, la fatica della perseveranza. «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» – dice Gesù, seppure in un contesto diverso (Lc 21,19).

La perseveranza è un atteggiamento oggi un po’ desueto. Si tratta di un impegno vissuto con costanza e fermezza, con una pazienza attiva, libera e responsabile, che permette di “rimanere sotto”, di “stare nonostante”, attendendo con fiducia e speranza la venuta del Signore nelle nostre esistenze, ma cercando già nel “qui e adesso” i segni della sua presenza. La perseveranza è quella «modalità di stare-dentro alle situazioni di vita che implicano sofferenza, prova, ma anche accettazione e tenacia, senza negarle, senza rimuoverle, senza aver paura di chiamare in causa anche Dio, gridando a gran voce il desiderio di uscirne, la volontà positiva di portare avanti un progetto di vita che non si adagi nella rassegnazione» (Lino Dan).

È la vita stessa che richiede di abitare la realtà in cui si vive e si opera, di avere occhi attenti e vigilanti per leggerla e interpretarla. Di avere un cuore che si mette in sintonia con l’esistenza concreta e reale delle persone, ascoltandola e imparando da essa.

Questo ci proietta in una dimensione umana e spirituale che non può prescindere dall’essere costantemente “in ricerca”.

Chiamati ad abitare il tempo presente

«Cari fratelli, se non formeremo ministri capaci di riscaldare il cuore alla gente, di camminare nella notte con loro, di dialogare con le loro illusioni e delusioni, di ricomporre le loro disintegrazioni, che cosa potremo sperare per il cammino presente e futuro?». Sono le parole di Papa Francesco ai Vescovi del Brasile nel 2013[2].

Che tempo stiamo vivendo, noi ora? Quali sono i criteri per comprendere le coordinate di questo tratto di storia in cui siamo chiamati a vivere e ad abitare?

Abitare non indica semplicemente qualcosa che si realizza in uno spazio; non si abitano solo i luoghi, si abitano soprattutto le relazioni. Oggi è più che mai difficile e inefficace presumere di vivere una staticità dentro ad un contesto fisso e ben definito. È necessario, invece, lasciare emergere la carica di coinvolgimento e di passione propria dell’abitare e del condividere ciò che la gente vive, anche se non sempre ne ha consapevolezza.

Gesù chiamò gli apostoli “perché stessero con lui” (Mc 3,14) e solo in seguito “per mandarli a predicare”. Abitare indica familiarità, comunanza di spazi e di abitudini: ognuno è chiamato ad imparare dal Signore Gesù, passando del tempo con Lui, per assimilarne il modo di pensare, di parlare, di agire, di guardare gli altri.

Questo “training” permette poi di sentirsi più a proprio agio nell’abitare la quotidianità e i luoghi di vita dove si richiede una presenza solidale. Il rischio sempre in agguato nell’impegno pastorale è di lasciarsi risucchiare e spremere in un vortice di attivismo, che asciuga le energie e sottrae tempo e motivazioni per vivere le relazioni. Abitare ha una connotazione profondamente umana: evoca la casa, suggerisce quotidianità, dice accoglienza e intimità.

Come non pensare alla casa di Betania, la casa dell’amicizia in cui Gesù si recava per sentirsi in famiglia perché lì era accolto con un calore fraterno?

Lo Spirito Santo e la chiesa ci chiedono una reale attenzione a chi condivide anche un piccolo tratto di strada con noi.

Un’icona biblica richiama in maniera visiva ed immediata il senso del farci compagni di strada per un “dialogo di crescita”. È un testo ambientato “on the road”, lungo la via: racconta l’incontro tra il diacono Filippo e l’eunuco Etiope, funzionario della regina Candace (At 8,26-40).

«Disse allora lo Spirito a Filippo: Va’ avanti, e raggiungi (accostati a) quel carro». Il carro arriva e passa. Filippo rimane sul fianco della strada. Lo Spirito gli suggerisce «Va’ e raggiungi quel carro». Non si tratta solo di affiancarsi fisicamente a quel convoglio in movimento, quanto piuttosto di affiancarsi a un uomo che sta percorrendo la strada della propria vita, che sta camminando dentro ai propri problemi, che cerca di elaborare la sua storia, il suo passato, il suo avvenire.

Abitare le relazioni significa viverle fino in fondo, con autenticità, con profondo rispetto e con libertà, perché l’altro possa sentirsi pienamente a proprio agio.

A volte immagino che il mio intimo sia come un posto irto di aghi e di spilli. Come accogliere qualcuno se non vi può riposare pienamente? Un cuore agitato di preoccupazioni, rabbia e gelosie, causa delle ferite a chi vi entra. Devo creare in me una zona libera per poter invitare gli altri ad entrare e guarire (Henri J.M. Nouwen)[3].

Un tempo per localizzarsi

Curare dei tempi di formazione continua e di aggiornamento, significa vivere con “consapevolezza”. È sempre Papa Francesco a dire:

Per essere protagonista della propria formazione, il prete dovrà dire dei “sì” e dei “no”: più che il rumore delle ambizioni umane, preferirà il silenzio e la preghiera; più che la fiducia nelle proprie opere, saprà abbandonarsi nelle mani del vasaio e alla sua provvidente creatività; più che da schemi precostituiti, si lascerà guidare da una salutare inquietudine del cuore[4].

Il libro della Genesi ci propone un episodio interessante (cfr. Gn 3,8-10).

Sul far della sera, il Signore scendeva nel giardino dell’Eden per incontrare Adamo ed Eva e dialogare con loro. Una sera, dopo che Adamo ed Eva avevano vissuto la loro disobbedienza, il Signore non trovò Adamo presente all’appuntamento consueto. Allora lo chiamò dicendo: «Adamo, dove sei?»

Anche per noi oggi risuona la stessa domanda: «E tu, dove sei?».

È importante dirci dove siamo, dove ci localizziamo, perché anche noi siamo continuamente tentati di vivere nella menzogna dell’auto-nascondimento, fatto di maschere e vari personaggi, che non ci permettono di raggiungere la verità e la profondità di noi stessi.

Sociologi e psicologi definiscono questa realtà come “la sindrome dell’uomo dislocato”. In questa “dislocazione” rientrano tutte quelle persone che non sono a proprio agio né con sé stesse né con gli altri; che vivono perennemente insoddisfatte ed inquiete, in balia delle proprie paure e incertezze, cercando risposte che si rivelano spesso effimere e banali. Luigi Pirandello li definirebbe come … «personaggi in cerca d’autore».

La consapevolezza ci aiuta a ridefinire i passaggi chiave della nostra vita; ci permette di leggere in profondità il mondo delle nostre relazioni, attraverso i sentimenti e le emozioni. Ci aiuta a cogliere ciò che in noi può essere maschera, apparenza e ciò che è zona d’ombra, di limite spesso negato o represso, per imparare a riannodare i fili spezzati della propria storia personale.

La consapevolezza ci aiuta a trovare strumenti per imparare a rileggere i passaggi, le “interruzioni” della propria e altrui vita, come momenti privilegiati per fare verità su sé stessi e per aprirsi al dono della Grazia di Dio.

È questione di sguardi

Il tempo che dedichiamo alla formazione personale e comunitaria ci permette di acquisire uno sguardo capace di “guardare oltre” lo stretto perimetro delle necessità urgenti e contingenti.

C’è un personaggio biblico che ha questa straordinaria capacità di guardare oltre: è Giuseppe, il protagonista dell’ultimo grande ciclo della Genesi (37-50).

Questo adolescente-pastore, che ama i sogni e li sa raccontare e interpretare, è odiato dai suoi fratelli perché è il prediletto del padre Giacobbe e perché nella sua ingenuità giovanile racconta dei sogni che danno fastidio ai suoi fratelli. Giuseppe è un sognatore, anzi, la Bibbia lo definisce “il padrone dei sogni”.

Questo singolare tipo di invidia, l’invidia per i sogni degli altri, è particolarmente dannosa e si attiva quando qualcuno ha la capacità di sognare cose grandi e poterle realizzarle. Ciò dà molto fastidio, perché mette in luce la propria resistenza e inerzia!

«Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34).

Il desiderio è profondamente radicato nell’essere umano, ma lo spinge con forza al di là di sé stesso. Diviene appello all’altro, invocazione dell’altro, preghiera e vocazione.

Gesù è il vero maestro del desiderio, colui che insegna ad «amare quelle assenze che ci fanno vivere»[5]; noi viviamo di assenze, di desideri, di vocazione, di ciò che ancora manca, non di cose già fatte.

L’aggiornamento paziente e costante, il cammino di piena adesione alla formazione continua diviene motivazione e appello per ritrovare slancio e creatività nella diakonia del ministero presbiterale, apprendendo e gustando l’arte del guardare “oltre”, del guardare “più in là”.

Tutto ciò è bene interpretato dalle parole del drammaturgo irlandese George Bernard Shaw[6]:

Alcuni uomini vedono le cose così come sono, e dicono: “Perché?”

Io sogno le cose come non sono mai state, e dico: “Perché no?”


[1] Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Ratio fundamentalis”, promosso dalla Congregazione per il clero, 7 ottobre 2017.

[2] Francesco, Discorso ai Vescovi del Brasile, Rio de Janeiro, 27 luglio 2013.

[3] H.J.M Nouwen, Il guaritore ferito: il ministero nella società contemporanea, Queriniana, Brescia 2003.

[4] Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Ratio fundamentalis”.

[5] Rainer Maria Rilke, (1875-1926) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema. È considerato uno dei più importanti poeti di lingua tedesca del XX secolo.

[6] George Bernard Shaw (1856- 1950). Drammaturgo, narratore e saggista, scrisse opere indimenticabili come Androclo e il leone (1913), Pigmalione (1914), Casa Cuorinfranto (1920). Nel 1925 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura.


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