IL PRETE: PASTORE & LEADER
Carissimi lettori,
concludiamo questa annata di Presbyteri con un tema delicato, quello dell’autorità. È indubbio che il presbitero riceve una chiamata anche ad essere “guida”, a “pascere” il gregge a lui affidato. Certo, siamo consapevoli che esso è prima di tutto un servizio, e proprio per questo ci chiediamo come viverlo al meglio, convinti che esso sia importante e necessario, ma che nasconda anche dei rischi, come spesso la storia, anche contemporanea, ci ha mostrato.
Don Nico Dal Molin ci introdurrà al tema con l’Editoriale: cogliamo l’occasione per ringraziarlo per l’importante servizio svolto quest’anno per noi e per la sua disponibilità a proseguirlo anche nell’anno prossimo.
Il contributo di don Paolo Asolan abbozza una possibile reinterpretazione teologico-pastorale della funzione direttiva del pastore all’interno della comunità cristiana, cercando di individuare un modo di essere guide in questo nostro contesto di Chiesa e di società.
Don Vito Mignozzi parte dalla traditio propria di Gesù, quale elemento fondante e imprescindibile, per coglierne la possibilità di una fedele continuità all’interno di vissuti ecclesiali e di stagioni storiche sottoposti a continui cambiamenti. Molto importante è anche la consegna conciliare su questo tema, sottoposta oggi ad una recezione creativa per rinnovate configurazioni della potestas dei ministri in una chiesa sinodale.
Don Massimo Nardello mette a fuoco alcune criticità dell’attuale teologia del ministero ordinato che rendono complesso l’esercizio della leadership dei presbiteri, e quindi alcuni suggerimenti di tipo spirituale e pastorale per vivere comunque in modo fruttuoso e sano il loro ruolo di guida.
Gli spunti di meditazione sono offerti da suor Chiara Curzel, membro e segretaria della Redazione; la rubrica Presbyteri digit@li è curata come sempre da don Giacomo Ruggeri, che con questo numero conclude il suo servizio e a cui va il nostro grazie per averci accompagnati quest’anno. Infine nello spazio dedicato all’Unione Apostolica del Clero proseguiamo il nostro cammino con i Salmi della Liturgia delle Ore.
Speriamo di avervi ancora come nostri lettori nell’anno 2022; vi invitiamo a visitare il nostro sito e a cogliere le novità che stiamo preparando per l’anno che verrà.
Buona lettura!
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o i singoli articoli:
Quale autorità oggi? (Paolo ASOLAN)
Il contributo abbozza una possibile reinterpretazione [teologico-pastorale] della funzione direttiva del pastore all’interno della comunità cristiana. La Teologia pastorale non delinea un modello di pastore ideale e assoluto (absolutum, cioè senza relazione alla situazione socio-storica), ma una figura euristica contestuale, con carattere di necessaria generalizzazione. Come individuare un modo di essere guide e pastori che abbia i requisiti più idonei per questo nostro contesto di chiesa e di società?
Con l’autorità che ci è stata trasmessa (Vito MIGNOZZI)
L’esercizio dell’autorità ha costituito da sempre un elemento decisivo per la vita del corpo ecclesiale, ma al contempo una questione complessa sul piano della riflessione teologica. Si tratta, infatti, di far vivere la traditio propria di Gesù, senza tradirne l’intenzione originaria, all’interno di vissuti ecclesiali e di stagioni storiche sottoposti a continui cambiamenti. La consegna conciliare su questo tema oggi è sottoposta ad una recezione creativa in vista di rinnovate configurazioni della potestas dei ministri in una chiesa sinodale.
La leadership del pastore (Massimo NARDELLO)
Lo scopo di questo contributo è quello di mettere a fuoco alcune criticità poste dell’attuale teologia del ministero ordinato che rendono complesso l’esercizio della leadership dei presbiteri, e quindi alcuni suggerimenti di tipo spirituale e pastorale che potrebbero aiutarli a vivere comunque in modo fruttuoso e sano il loro ruolo di guida.
EDITORIALE
a cura di don NICO DAL MOLIN
Vorrei incoraggiarvi a vedere il mondo sempre con gli occhi degli altri, anche in futuro, per percepire le prospettive a volte scomode e contraddittorie dell’altro e lavorare per bilanciare gli interessi (…) Gli ultimi due anni della pandemia in particolare hanno mostrato, come una lente di ingrandimento, la grande importanza della fiducia, nella politica, nella scienza e nel confronto sociale, ma anche quanto la fiducia possa essere fragile. La nostra democrazia vive grazie alla capacità di impegnarsi in un dibattito critico e nell’autocorrezione. Vive del costante bilanciamento degli interessi e del rispetto reciproco. Vive di solidarietà e di fiducia.
Non vi stupisca questa citazione “laica” nella nostra rivista. Come è facile intuire, queste non sono parole di Papa Francesco o di qualche altro grande leader religioso. Sono due passaggi del discorso con cui la cancelliera tedesca Angela Merkel, dopo 16 anni di governo, ha concluso il suo mandato[1].
Sono parole che potrebbero rappresentare un piccolo vademecum anche nell’ambito ecclesiale, in particolare per chiunque sia chiamato ad avere un ruolo di guida, che è sempre un ruolo di servizio, nella comunità cristiana.
In poche battute è condensato un modo di concepire e di vivere la leadership. Un impegno che si fonda su una visione che ha a cuore obiettivi comuni da raggiungere, capace di un sano realismo nel guardare al presente e di uno sguardo positivo rivolto al futuro.
Ciò non si realizza senza una “formazione continua” che permetta la verifica costante della propria esperienza e che la alimenti di ulteriore competenza, passione, responsabilità e rispetto.
Sono parole grandi, importanti, che tutti noi spesso usiamo, ancor più in una fase ecclesiale come questa in cui ci si incammina lungo un percorso sinodale affascinante per le prospettive che apre, ma che può anche rivelarsi come un fiume di belle parole e buone intenzioni.
Ad un interessante approfondimento di questi aspetti ha dedicato una lunga serie di riflessioni il teologo Massimo Nardello, in un percorso articolato e suggestivo pubblicato su SettimanaNews.
Dedicheremo alcune riflessioni al tema della leadership ecclesiale facendoci accompagnare da una guida d’eccezione, s. Gregorio Magno, in particolare dalla sua “Regola pastorale”. Vescovo di Roma in un periodo di cambiamenti epocali, in cui il mondo occidentale sembrava poter scomparire a causa delle invasioni barbariche, egli ha delineato in quest’opera, scritta nel 590/591, la figura ideale del pastore come figura necessaria a porre rimedio ai mali che devastavano le persone e la società del suo tempo[2].
Guardando a Gesù
All’inizio del suo vangelo, Marco descrive una giornata tipo di Gesù; si svolge a Cafarnao in giorno di sabato (Mc 1,21-39). Dalla preghiera nella sinagoga, al mattino, al pranzo in casa di Simone. Quando poi la giornata volge al termine, mentre il sole sta tramontando, intorno al Signore cominciano ad affollarsi malati e indemoniati, portati a lui da chi spera in una miracolosa guarigione. Si giunge così alla notte, quando Gesù si rimette in preghiera, questa volta in modo solitario e riservato. Nella sinagoga aveva pregato con gli altri e aveva insegnato loro, ora cerca solo un dialogo personale e intimo con il Padre.
La prima scena di questa giornata particolare si svolge nella sinagoga di Cafarnao, dove Gesù entra per insegnare. Nell’ascoltarlo, tra la gente comincia a diffondersi un commento unanime: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (Mc 1,27).
Erano stupiti dal suo insegnamento perché la sua era una parola di autorevolezza. Questa è una delle caratteristiche più affascinanti di Gesù: la sua exousía, il parlare con competenza e autorità.
Egli diceva ciò che pensava e faceva ciò che diceva. Tornano in mente le parole di Martin Buber nell’indicare la vera origine dei conflitti: «Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico. In questo modo, infatti, la situazione tra me e gli altri si ingarbuglia e si avvelena sempre di nuovo e sempre di più»[3]. Anche tutte le nostre guerre interiori, che rischiano di sfiancarci e di dividerci da noi stessi e dagli altri.
Gesù sta commentando la Parola di Dio nel libro di Isaia, e la gente rimane stupita dal modo con cui egli insegna, perché «non era come gli scribi» (v. 22). Questa sua autorevolezza e leadership trova una immediata conferma nella guarigione dell’uomo che porta in sé uno spirito immondo.
«Taci ed esci da lui», gli dice Gesù (v. 25). La sua parola, come ha la forza di chiamare qualcuno per seguirlo o di spiegare il libro sacro, ha anche il potere di sconfiggere lo spirito del male che è la sorgente del disordine interiore del cuore.
Gesù non pronuncia solo dei bei discorsi fine a se stessi, ma le sue parole portano liberazione, operano ciò che dicono e portano chiarezza nel cuore. È una spinta decisa a pensare liberamente, a provare emozioni autentiche, a cogliere il senso vero e non pregiudiziale delle persone, della realtà, della vita.
Molte volte il ricordo di ciò che abbiamo vissuto e che viviamo può continuare a turbare e a disturbare: quelli sono i nostri spiriti maligni che portano caos dentro di noi, che ci disorientano e ci tolgono fiducia. «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
La forza della parola, la potenza del gesto[4]
La leadership, intesa come arte dell’essere guida e pastore, va appresa e custodita; non bastano né il buon senso né la fantasia. Non è sufficiente neppure aver maturato una visione corretta della spiritualità cristiana, cioè «sapere le regole della vita spirituale».
Scrive ancora Gregorio Magno: «Ci sono poi alcuni che investigano le regole della vita spirituale con esperta cura, ma poi calpestano con la loro condotta di vita ciò che riescono a comprendere con l’intelligenza: subito si mettono a insegnare ciò che hanno imparato con lo studio ma non con la pratica» (Regola pastorale, n. 2).
Si è leader soprattutto con la propria vita. Come in una famiglia i figli non maturano delle convinzioni semplicemente perché ascoltano le parole dei genitori ma, vivendo con loro, vedono nella vita di tutti i giorni se c’è coerenza tra ciò che dicono e ciò che fanno, così è per un presbitero chiamato ad essere pastore e guida della comunità: non è sufficiente parlare o scrivere molto. Le parole hanno bisogno di gesti di vita, per non diventare banali ed effimere. Solo così diventano parole generative, parole di guarigione[5].
«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,30-31).
Gesù è nella casa della suocera di Pietro. Da uno spazio cultuale pubblico passa ad un luogo privato, familiare, quasi a dire che un luogo importante in cui si incontra Dio e si fa esperienza di lui è proprio la vita quotidiana. Quando la fede si sveste di ogni apparato di solennità, di esteriorità e ritualità, per entrare nel piccolo e umile vivere la ferialità. È bello che questo inizio del ministero di Gesù si snodi attraverso tutti i luoghi della vita dell’uomo. I luoghi del lavoro (il mare, le barche); i luoghi della preghiera e del culto comunitario (la sinagoga); i luoghi della convivialità e della intimità (la casa dell’amico Simon Pietro).
Il segno di guarigione che Gesù compie verso la suocera di Pietro sembra piuttosto insignificante. All’inizio del suo ministero ci si aspetterebbe qualcosa di più sensazionale. Invece è un miracolo povero di ogni contorno e pretese, poco vistoso, dove Gesù non dice una parola. Contano solo i gesti.
Spesso, di fronte ai momenti di dolore e di lutto noi cerchiamo mille parole o mille risposte che non ci sono. Ciò che conta veramente sono i gesti di vicinanza, di prossimità, di affetto. I miracoli non sono segni spettacolari di potenza, ma gesti di misericordia, di una semplicità che si fa tenerezza e comprensione, perché, per il Signore, tutto inizia dal dolore del mondo.
Nel racconto della guarigione di questa donna, la piccolezza del segno è tutta a vantaggio della grandezza del significato, perché non capiti come succede allo stolto: se gli indichi con un dito la luna, lui si ferma incantato a guardare la punta del dito.
Il primo tra voi sarà il servo di tutti
C’è un interessante racconto nel vangelo di Marco (Mc 10,32-45). Gesù è in cammino verso Gerusalemme; per la terza volta ha ribadito che sta andando nella città santa non per riconquistare il potere in mano alle legioni romane, non per rioccupare il trono di Davide, ma per dare la sua vita per amore.
«Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”. Egli disse loro: “Che cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”» (Mc 10,35-37).
Gesù parla della sua morte oramai vicina, mentre Giacomo e Giovanni pensano a garantirsi un posto di visibilità e di potere. Gli altri discepoli, però, sono esattamente come loro; certo, si arrabbiano con i due fratelli, ma in fondo la pensano allo stesso modo, e se protestano lo fanno solo per gelosia.
Anche noi, oggi, stiamo vivendo una stagione difficile di solidarietà inaridita, di narcisismo diffuso, di individualismo asfissiante. È “normale” mettere al centro il proprio io, rinchiudersi in una specie di fortezza inaccessibile a salvaguardia del proprio benessere e tornaconto, dove l’avere ha sempre la precedenza sul dare. In questo modo, però, nessuna relazione può funzionare: non in famiglia, non con gli amici, non in comunità, tantomeno con Dio.
Per il vangelo, stare alla destra e alla sinistra di Cristo significa occupare i due posti vicino a lui sul Golgota, rimanendo dalla sua parte sia quando è voce di Dio e sollievo concreto per i poveri sia quando è “un disarmato amore” che vive l’impotenza[6].
Stare alla destra e alla sinistra di Gesù significa bere alla coppa di chi ama per primo, di chi ama in perdita, senza contare e senza calcolare.
Per riassumere tutta la vicenda di Gesù, a S. Paolo bastano poche battute: «Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. (Fil 2,6-7).
Scrive mons. Francesco Lambiasi:
La spiritualità del servizio è il vaccino più efficace contro il morbo di Ego. È una spiritualità di buona lega, nella Chiesa e nella società. Eppure oggi sembrano circolare più dichiarazioni di servizio che veri servi. Il servo, secondo il vangelo, è uno che scrive sulla sabbia quello che dona e incide sulla pietra quello che riceve[7].
[1] Angela Merkel, Discorso di fine mandato in Corriere della sera, 3 dicembre 2021.
[2] Massimo Nardello, La leadership nella Chiesa/1, in SettimanaNews, 27 settembre 2020.
[3] Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnano (BI) 1990, 46.
[4] La dimensione della coerenza tra parola e vita è già stata tematizzata in L’arte dell’omelia, Presbyteri 5(2021).
[5] Cfr. Massimo Nardello, La leadership nella chiesa/2, in SettimanaNews, 4 novembre 2020.
[6] François Fénelon, L’amore disarmato. Antologia dalle lettere, a cura di B. Papasogli, Paoline, Milano 1996.
[7] Francesco Lambiasi, Servi del Servo, Omelia per la Conferenza Nazionale Animatori R.n.S., Rimini 29 ottobre 2010.
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