Presbyteri 8_2021

PRETE, ABBI CURA DI TE

Carissimi lettori,

dopo aver pubblicato, sullo scorso numero, gli Atti del nostro Convegno “I tempi del prete: tra dono e limite” tenutosi il 3 maggio scorso, le nostre monografie riprendono con un tema emerso con forza dalle relazioni del convegno e a noi molto caro: la cura di sé, come vissuta nella vita del presbitero. In questi tempi di cambiamento, in cui il prete è spesso sotto pressione e disorientato, sentiamo il bisogno di fermarci a riflettere su una corretta spiritualità del dono di sé, facendo attenzione a quali contesti, luoghi, strumenti, tempi, dinamiche relazionali permettono quella buona qualità di vita necessaria per un servizio pastorale fecondo.

Dopo un’ambientazione del tema della cura nei suoi vari aspetti, per definirne i contorni e evitare così fraintendimenti o pericolose spiritualizzazioni o assolutizzazioni (dottoressa Vanda Giuliani), abbiamo chiesto a padre Luciano Sandrin di aiutarci a comprendere come occorra passare da una spiritualità, e conseguente formazione, focalizzata sul sacrificio di sé a un’educazione aperta al dono di sé, cercandone le condizioni che la possono coltivare.

Don Roberto Massaro ci mostra poi nel suo contributo come la cura pastorale, a cui il prete è chiamato, si fondi su una genuina cura sui, e come il presbitero possa arrivare a questo attraverso un nuovo sguardo su passato, presente e futuro. Don Giovanni Frausini si chiede “chi custodisce gli stessi custodi”, evidenziando la necessità di una rete di sostegno di cui il presbiterio è l’elemento centrale. Concludiamo il tema monografico con una breve intervista a padre Gian Luigi Pastò, che nella Redazione di Presbyteri rappresenta la Congregazione di Gesù Sacerdote (Padri Venturini), proprietaria della Rivista stessa, che ha al cuore del suo carisma l’attenzione alla santificazione del prete e dunque la cura per tutte le dimensioni della sua persona.

La rubrica Gesti di condivisione è stata affidata su questo numero alla Direttrice della Rivista Diocesana di Nola; la rubrica Presbyteri digit@li è curata come sempre da don Giacomo Ruggeri; nello spazio dedicato all’Unione Apostolica del Clero proseguiamo il nostro cammino con i Salmi della Liturgia delle Ore.

Buona lettura!

 

La Redazione

 

 

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L’arte della cura (Vanda Giuliani)

L’arte della cura non riguarda soltanto l’ambito medico ma tocca ampiamente quello pastorale, dove il prendersi cura impegna su molti fronti gli operatori dei vari settori.

Vengono qui descritte le parole principali attraverso le quali è possibile raccontare l’esperienza dell’avere cura – fragilità, attenzione, prossimità, compassione, soggettualità e reciprocità, accompagnamento, umanizzazione, prontezza e lentezza, gentilezza – e sottolineata la necessità di aver cura delle parole per poter prendersi cura delle persone.

 

Chiamati al dono di sé (Luciano Sandrin)

Chi ha vissuto la formazione presbiterale intorno agli anni sessanta, o anche prima, ha respirato una spiritualità che aveva nell’idea del “sacrificio di sé” uno degli ideali più importanti del proprio servizio pastorale. Per evitare sofferenze inutili, e continuare a bruciare d’amore per gli altri senza bruciarsi (burnout), c’è bisogno di passare da una spiritualità, e conseguente formazione, focalizzata sul sacrificio di sé a un’educazione aperta al dono di sé, cercandone le condizioni che la possono coltivare. Anche la croce è preferenzialmente interpretata come il simbolo più alto del sacrificio, dimenticando che nel gesto di Cristo, in primo piano, c’è la donazione di sé: non il sacrificio ma l’amore. È questa la strada per un’autentica “realizzazione di sé”, sulla quale insiste oggi una “buona” psicologia, per star bene noi e far star bene coloro che vogliamo aiutare. E perché le nostre relazioni pastorali siano sane e sananti.

 

Prete, cura anche te stesso! (Roberto Massaro)

La cura pastorale, a cui il prete è chiamato, si fonda su una genuina cura sui, che rifugga tanto dal rischio dell’autoannullamento, cui molto ci si è esposti nei secoli, quanto da possibili derive narcisistiche, frequenti ai giorni nostri. A partire dalle intuizioni di Heidegger sull’“Esserci come Cura”, dunque, si profila per il presbitero la necessità di rinnovare il proprio sguardo su passato, presente e futuro, in vista di quell’autentica cura di sé da cui deriva il prendersi cura di altri.

 

Quis custodiet ipsos custodes? (Giovanni Frausini)

Tutti coloro che vivono una responsabilità hanno anche diritto-dovere di essere sostenuti. Nel grande progetto di Dio per salvare l’umanità (il Mistero) un ruolo particolare lo hanno coloro che sono stati chiamati ad essere ministri nella Chiesa; per loro, anche nel nostro tempo, il Signore ha pensato una rete di sostegno. Chi prima di tutti si occupa di questo è Lui stesso, anche attraverso la comunità cristiana che con una vita di fedeltà al Vangelo sostiene i suoi ministri. Ma è soprattutto attraverso il presbiterio che il Signore si fa compagno di viaggio, attraverso il vescovo e gli altri presbiteri, di chi ha accolto la chiamata di Dio per mezzo della Chiesa.

 

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EDITORIALE


a cura di don NICO DAL MOLIN

 

Nella Parola di Dio c’è un testo che può fare da cornice al tema della “cura”: è il commiato che Paolo vive nei confronti della comunità di Efeso (At 20,17-38).

Viene letto nelle settimane dopo la Pasqua quando, seguendo giorno per giorno il racconto degli Atti degli Apostoli, si possono cogliere sia le vicende della chiesa che nasce e parte da Gerusalemme per annunciare il Vangelo di Gesù, sia le vicende di un uomo particolare, tutto fuoco e passione per il Signore risorto. Egli non ne era stato un testimone diretto, ma lo aveva incontrato in maniera folgorante sulla via di Damasco: è Paolo di Tarso.

Paolo sta portando a conclusione il suo terzo viaggio missionario, e lo sta facendo sulla spiaggia di Mileto dove ha convocato gli anziani della comunità di Efeso per un saluto speciale a quella comunità, prima di tornare a Gerusalemme. Di lì poi inizierà il suo ultimo viaggio, in prigionia, verso la capitale dell’Impero: Roma.

È un saluto denso di emozione e di affetto: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge… Vi affido al Signore e alla parola della sua grazia… Ricordate le parole di Gesù: vi è più gioia nel dare che nel ricevere».

Nelle sue parole ci è consegnato un gesto essenziale per la vita umana e particolarmente significativo nel tempo che abbiamo vissuto e che tuttora stiamo vivendo: saper prendersi cura degli altri che, alla fine, significa anche saper prendersi cura di sé stessi.

 

Un gesto d’amore

 

È successo nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità. È successo nelle RSA con i nostri anziani; è successo nei nostri ospedali, dove abbiamo visto compiere gesti meravigliosi di attenzione e di cura verso chi era ammalato e soprattutto verso chi stava soffrendo nella solitudine.

Le cose, ma soprattutto le persone che amiamo, richiedono cure. Prendersi cura di qualcosa o di qualcuno è una forma straordinaria di amore.

È qualcosa che conoscevamo già, ma che è rimbalzata in maniera prepotente dentro alle attenzioni prioritarie delle nostre vite: prendersi cura significa avere a cuore prima di tutto le persone e le relazioni.

Non è facile viverlo, perché siamo tutti tentati di rientrare nel vortice delle cose da fare che assorbono gran parte delle nostre energie. E tuttavia non possiamo dimenticare il messaggio forte che Paolo lascia alla comunità di Efeso: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35).

Prendersi cura è un atto d’amore straordinario per gli altri, ma che fa tanto bene anche a noi. Ci permette di riflettere sul senso delle nostre scelte di vita, su come gestiamo le relazioni, i progetti, gli impegni, le aspettative nostre e altrui.

È un viaggio dentro a sé stessi che permette di comprendere come, a volte, si preferisca lasciare da parte il tempo della attenzione e della cura perché troppo coinvolti dalle urgenze della propria agenda e dalla inevitabile ansia di prestazione che ne consegue.

La cura è dedizione, è rispetto, è vivere con consapevolezza. Se viviamo con una mente “affollata”, rischiamo di perderci questi segnali.

Il poeta Orazio (65-8 a.C.) scrive con finezza: «La cura dovrebbe essere la compagna permanente dell’uomo».

Se non fosse così, cadremmo nella indifferenza, che è la morte dell’amore e della cura. «È il tempo che hai speso per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante». Sono le parole che la volpe rivolge al Piccolo Principe, in una delle pagine più belle del romanzo di Saint-Exupéry[1].

Dire tutto ciò ai preti sembrerebbe quasi scontato e banale. Eppure è necessario, di tanto in tanto, recuperare uno spazio di consapevolezza per ricordarci, come scrive Elias Canetti, che «il nostro compito supremo nel mon­do è custodire delle vite con la propria vita»[2].

 

Custodi di vita

 

Ci stiamo avviando, come Chiesa italiana, lungo un’esperienza di cammino sinodale, che ci accompagnerà nei prossimi anni.

Per viverlo in maniera generativa e feconda, può essere importante non archiviare troppo facilmente questi mesi, come se davvero fossero una parentesi aperta e chiusa. Non è realistico né vantaggioso considerare solo una parentesi ciò che insieme abbiamo sperimentato, vissuto, sofferto.

Dice il cardinale Bassetti: «Nel contesto attuale, in una fase ancora segnata sul piano sociale, economico ed ecclesiale dagli effetti della pandemia, il cammino sinodale costituisce un’occasione propizia di rilancio delle comunità e una voce profetica rispetto alle istanze dell’oggi e del futuro (…) esso è una conversione pastorale a 360 gradi basata sul Vangelo e le condizioni degli uomini di oggi. In quest’ottica, vuole essere una carezza alla gente in estrema sofferenza»[3].

Esso può rappresentare un importante momento di “memoria” e di “discernimento” per ognuna delle nostre realtà ecclesiali. Ricordo una testimonianza, condivisa con un gruppo di presbiteri, in un incontro con Mons. Gèrard Daucourt, Vescovo di Orléans prima, e dal 2002 al 2013 Vescovo della diocesi di Nanterre, suffraganea dell’arcidiocesi di Parigi. Lo potrei così sintetizzare.

  • Tutti, come cristiani, siamo chiamati ad essere “servi del discernimento”. Vivere questo servizio è il modo più bello per essere chiesa. Ma per essere chiesa è essenziale prenderci cura gli uni degli altri, in un cammino corale, in una rinnovata esperienza della comune dignità dell’essere battezzati. «Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1Cor 12,20-21).
  • La chiesa è un mistero di comunione, dove unità e diversità sono in un continuo equilibrio dinamico. L’equilibrio non è mai frutto della staticità ed è una dimensione essenziale perché una ricerca esasperata di unità non divenga uniformità e una diversità troppo marcata non degeneri in confusione. Ciò richiede il recupero di una prassi importante, troppo spesso trascurata, nel cammino pastorale: la verifica.
  • Siamo reciprocamente inviati gli uni agli altri per aiutarci a vivere meglio il nostro essere discepoli. Talvolta può risultare faticoso ricevere il dono degli altri, perché scombina le nostre certezze e sicurezze acquisite, perché ci chiede di metterci nella prospettiva del pellegrino, dell’homo viator – come lo definiva Gabriel Marcel (1944) – che non è un naufrago disperso, né un malinconico randagio o un vagabondo nomade e smemorato.

«Se l’uomo è essenzialmente un viandante, ciò significa che egli è in cammino verso una meta che vede e non vede. Egli non può perdere questo sprone, senza divenire immobile e senza morire»[4].

  • Ciascuno di noi dovrebbe imparare a chiedersi: «Cosa ricevo dagli altri che mi aiuta a vivere meglio il mio essere cristiano e il mio ministero?». Ricordando la forte espressione di sant’Agostino: «Sorreggetemi però anche voi in modo che, secondo il precetto dell’Apostolo, portiamo l’un l’altro i nostri pesi e così adempiamo la legge di Cristo (…) Nel momento in cui mi dà timore l’essere per voi, mi consola il fatto di essere con voi. Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano»[5].

 

Abbi cura di te!

 

È una espressione che può trovare declinazioni molto diverse nelle nostre vite. Non è sempre facile, infatti, cogliere il limite oltre il quale la cura di sé rischia di diventare eccessiva attenzione alla propria persona, con varie deformazioni comportamentali, dal salutismo alla cura eccessiva del proprio look, dal giovanilismo narcisista alla paura esagerata di far apparire i segni del proprio invecchiamento, dalla pretesa d’esser padroni del proprio tempo alla rigidità nel perseguire i propri interessi e molto altro ancora.

D’altra parte c’è un rischio anche sul versante opposto: ci sono presbiteri che sembrano non aver alcuna attenzione nei confronti di sé, del proprio corpo, della propria salute, o che sembrano confondere lo “zelo pastorale” con un senso esagerato dell’io. E spesso non conoscono tregua e riposo nel loro presunto darsi per gli altri, neppure nel ritmo naturale dell’alternanza giorno-notte.

 

Nella riflessione di don Enrico Parolari e Claudia Ciotti nel recente Convegno online, proposto da questa rivista (3 maggio 2021), un passaggio aiuta a comprendere come la stessa realtà pastorale in cui i presbiteri sono coinvolti, non favorisce il vivere in maniera adeguata una corretta dimensione della “cura di sé”.

La tentazione sempre in agguato è quella di continuare ad occupare tutti gli spazi che rimangono vuoti. E sono sempre di più!

«Le nuove forme di riorganizzazione pastorale non tengono presente nei fatti la questione dello stile di vita dei presbiteri e continuano a sovraccaricare il prete di responsabilità (il mantra spesso ripetuto nei cambiamenti di incarico è “mantenendo gli incarichi precedenti!”) in una sorta di clericalismo ascetico ed eroico che deve accumulare incarichi per occupare tutte le caselle rimaste vuote»[6].

 

A questo punto si apre un capitolo sempre più necessario, ma tutto da esplorare, sulla incidenza della formazione permanente e sulla qualità della comunicazione dentro ad un presbiterio, dove il Vescovo ha certamente un peso specifico determinante.

Può essere di incoraggiamento e di stimolo quanto scrive Thomas Merton nel suo Diario di un testimone colpevole. Egli dice di aver appreso che la capacità di vivere la solitudine non approfondisce soltanto il nostro affetto per gli altri ma è anche luogo dove diviene possibile una reale esperienza di relazione e di comunità.

«Chi impara a spartire la propria solitudine senza timore, considera ogni suolo sacro»[7].

[1] A. De Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, cap. XXI, Editore Bompiani, Milano 2013 (edizione originale 1949).

[2] E. Canetti, Massa e Potere (Masse und Macht, 1960), traduzione di Furio Jesi, Rizzoli, Milano 1972. Elias Canetti (1905-1994) è stato uno scrittore e saggista bulgaro naturalizzato britannico di lingua tedesca, premio Nobel per la letteratura nel 1981.

[3] Card. G. Bassetti, Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana, 9 luglio 2021.

[4] G. Marcel, Homo viator, Borla, Torino 1980.

[5] Agostino di Ippona, Discorso 340, nell’anniversario della sua ordinazione.

[6] E. Parolari e C. Ciotti, «Abbi cura di te»: la cura del tempo nella vita del prete e l’inganno dell’ubiquità, Atti del Convegno, Presbyteri 56(2021)7, 493.

[7] T. Merton, Diario di un testimone colpevole, (traduz. di G. Rampini), Garzanti, Milano 1992.

 

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