Antonio Riboldi: un vescovo e il suo popolo

don ALFONSO LETTIERI
della Redazione di Presbyteri

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Il primo ricordo che ho di Mons. Riboldi è il suo ingresso in diocesi e il fiume di gente per le strade. Era il 9 aprile 1978 (io ero un bambino), la diocesi era rimasta senza vescovo ordinario per 12 anni. Don Antonio, così si faceva chiamare, arrivava da Santa Ninfa (TP) dopo aver affrontato gli anni durissimi del terremoto e veniva in un territorio dove dal vescovo la gente si aspettava (e si aspetta) molto anche a livello sociale, dove la Chiesa è chiamata ad ascoltare le necessità dei cittadini, a fare quello che le compete, ma anche ad amplificare il loro grido e a sollecitare le istituzioni civili a fare la loro parte.

Un giornale locale dando la notizia della sua nomina episcopale così titolava: «Don Riboldi: da “padre terremoto”, a vescovo di Acerra in un momento critico della città» e scriveva: «Una sola voce, una sola domanda si è alzata da tutti
gli ambienti, ma negli animi degli acerrani, soprattutto, come sarà da vescovo “il parroco del Belice?”, abituati come si è, ad “Eccellenze” e poco a Pastori che conoscono per nome, “una per una” le persone ad essi affidate» (G. Niola, Il Quartiere, 22 febbraio 1978, Anno II, n. 2).

Ma dagli echi dei suoi anni in Sicilia, veniva alimentata la speranza di avere un buon pastore vicino alla gente, “con l’odore delle pecore” – dice oggi Papa Francesco. Lì aveva fatto suoi i problemi delle persone, li aveva vissuti sulla sua pelle, infatti, dopo il terremoto ha vissuto anche lui nelle baracche. Diceva: «Tanti mi hanno chiesto perché quando ero nel Belice, anziché procurarmi una casa vivevo in una baracca. La risposta è semplice: la mia vita in baracca voleva essere un grido ai baraccati: Ricordatevi che la casa è un vero bene, quando è segno e presenza della gioia della casa del Padre» (S. Bracci, Mons. Antonio Riboldi. Una strada nel deserto, Editrice VELAR, Gorle (BG) 2023, 16).

Nel saluto che inviò alla diocesi subito dopo essere stato nominato vescovo, scrisse: So che tra voi ci sono enormi problemi umani che attendono una giusta soluzione perché tra voi possa regnare un minimo di pace: so che non è facile il mio compito. Tutto questo non mi fa paura, anzi stimola a cercare nella Parola di Dio, nell’amore di Cristo tutta la forza della “buona novella del regno di Dio”.

Evangelizzazione e promozione umana
Ovviamente le attese riposte in don Antonio non fanno perdere di vista che è inviato per assumere una responsabilità ecclesiale e non civile, ma l’uomo credente è cittadino, ha le sue gioie e le sue speranze, le sue tristezze e le sue angosce e queste – come dice il Concilio – «sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1). Il nuovo vescovo di Acerra aveva ben chiari questi insegnamenti conciliari: evangelizzazione e promozione umana sono inseparabili. Su questo tema era stato chiamato ad intervenire al Convegno ecclesiale del 1976 (Roma, 30 ottobre-4 novembre). Iniziò presentando la situazione post terremoto e non usò mezzi termini. Lo Stato aveva stanziato 350 miliardi e aveva assunto l’onere e la piena responsabilità di tutte le opere di urbanizzazione e di tutte le opere primarie e secondarie. Penso sappiate tutti il gran parlare che si è fatto di questa cifra e di quanto si è fatto o meglio non si è fatto. In pratica lo Stato non è riuscito a portare a termine le opere di urbanizzazione… Per inciso dirò che nella legge del marzo 1968 lo stato aveva previsto (tramite un articolo di legge) l’impianto di industrie per 10.000 posti di lavoro in modo da ricostruire una Valle non “nel deserto”, ma che potesse vivere. Questa legge è lettera morta; non se ne parla neppure!!! … Come parlare di “libertà”, di “giustizia”, dove la necessità, la miseria rende necessariamente gli uomini “dipendenti” e quindi “schiavi” da chi può darti qualcosa per vivere, in pratica da chi “ha” e “può” facendo saltare ogni rapporto di fraternità o comunione? …
È chiaro che ogni concetto di giustizia è finito nel niente: cose a cui non si crede più. Non è più credibile lo Stato per le promesse fatte e non mantenute. Non sono credibili i partiti, le loro ideologie, perché hanno la stessa struttura verticistica e “lontana” dalla gente, che ha lo Stato. … Non è credibile forse anche la Chiesa nel suo insieme per la mancanza di impegno continuo.

Pone in seguito una domanda: Come allora essere qui Chiesa “sacramento di salvezza”? Come evangelizzare? E senza una “promozione umana” che elevi l’uomo alla piena consapevolezza della sua dignità, lo ponga in condizione di esercitare la sua libertà, può innestarsi un discorso di fede matura, che equivale ad avere comunità autentiche?


E poi propone la scelta fondamentale: “Essere uno di loro” ossia la comunità ecclesiale non può essere “astratta” dalla realtà totale in cui vive, ma deve essere la stessa realtà. Come Cristo nel suo tempo. Quindi piena comunione con tutte le loro necessità: attendata con gli attendati, infangata con gli infangati; baraccata con i baraccati.


Nella piena comunione e condivisione con tutti, don Antonio richiama ad una Chiesa «libera da ogni legame con qualsiasi potenza; pienamente testimone della giustizia e quindi pronta a denunciare ogni ingiustizia da qualsiasi parte essa proviene; pronta a promuovere la giustizia e la pace».
Nel post terremoto, nelle baracche istituì delle «basi di ascolto, di riflessione, di dialogo» per combattere l’ignoranza, l’individualismo e l’apatia; il suo obiettivo era quello di far crescere uomini liberi per poter affermare e difendere i propri diritti; l’ascolto della Parola di Dio illuminava la realtà concreta e la celebrazione dell’Eucaristia faceva crescere il senso comunitario: «creare la certezza che “da soli non ci si salva” sotto ogni profilo: e quindi comprendere che si ha bisogno di tutti». Il cammino portò alla stesura del “Progetto uomo”.
Lentamente alla coscienza di tanti si affacciò la grandezza di ciò che si poteva essere e non si era. Ed in questa fase il Vangelo, Cristo divenivano i veri modelli di liberazione. I veri modelli che esaltavano la persona dalla storia e dagli uomini per tanti anni repressa. Così il viaggio che fece con i bambini a Roma, la mobilitazione di tutta la Valle del Belice e la celebrazione della Pasqua «furono tre momenti di evangelizzazione e promozione umana: come due piedi che appartengono allo stesso uomo».


Sono in mezzo a voi come colui che serve
Su questi “due piedi” Mons. Riboldi ha sempre camminato e incoraggiato a camminare. E non ha perso tempo a farlo anche ad Acerra. Il giorno del suo ingresso ad Acerra, in Cattedrale si presentò con queste parole: Essere qui tra voi non è presunzione di potere, ma obbligo di servizio, non è ambizione di essere primo, ma coscienza di dover essere servo di tutti, non è arroccarsi in un palazzo circondato da privilegi, ma essere tra voi per le vostre strade, al vostro fianco. Essere qui tra voi, vostro vescovo, quindi vostro padre e fratello e capire fino in fondo le ingiustizie che opprimono la vita di tutti o di qualcuno e insieme edificare la giustizia.
Ad Acerra non ha perso tempo nel farsi “tirare” dentro la vita della gente. Goffredo Locatelli di “Paese sera” così scrisse il giorno dopo l’ingresso in diocesi: Dopo il saluto del sindaco di Acerra, don Riboldi ha subito preso contatto con la realtà non gradita dai potenti: quella fatta di miseria e sofferenza. Un gruppo di senza-tetto ha inscenato una clamorosa protesta gridando: “Eccellè, vulimm ‘a casa, aiutateci!”. La polizia ha cercato di farli tacere per non guastare l’atmosfera festosa, ma il vescovo ha capito. E ha rimandato la risposta a dopo il suo ingresso in duomo. Due giorni dopo, una delegazione dei senza-tetto è stata ricevuta in episcopio, mettendo così subito in pratica ciò che aveva pronunciato nell’omelia: Chiamatemi don Antonio, l’eccellenza mi stacca dalla gente. Io ho le mani povere, non sono ricco, però ho una fede grande e una volontà forte. La mia porta è la vostra porta, la mia casa è la vostra casa. Venite e vi darò quello che ho. Ci vedremo come vorrete e quando vorrete. Voi, povera gente che soffrite, sarete i miei maestri. A pochi giorni dal suo arrivo in diocesi, chiese a due giovani di accompagnarlo a conoscere il quartiere attorno alla Cattedrale, entrò nei cortili, si fermò tra la gente incredula di vedere il vescovo nella propria casa e lui, in questa visita toccò con mano la povertà e la miseria che lo circondava. Questo è stato il suo stile durante i 22 anni di episcopato ad Acerra.


Incoraggiare e dare speranza
Personalmente ho potuto sperimentare la sua paternità, la sua grande fede e l’amore per il suo popolo, conservo ancora le lettere che inviava ad ogni prete in occasione del Natale e della Pasqua. Mi ha accolto e seguito nel mio discernimento vocazionale, mi ha incoraggiato nelle difficoltà, ha partecipato alla mia gioia. Negli incontri che ho avuto con lui, mi parlava spesso della sua esperienza di discernimento, del suo ingresso tra i rosminiani, della docilità alla volontà di Dio, dell’affidarsi ai superiori, dell’essere pronto a servire ovunque il Signore concretamente nei fratelli e nelle sorelle. Mi raccontava che da giovane aveva il desiderio di continuare gli studi universitari e lo chiese al Padre Generale dicendo che lo Spirito Santo lo aveva ispirato. Il Padre Generale così rispose: «Non so quale Spirito Santo tu abbia pregato. Il mio ha detto che devi andare a Santa Ninfa».
(Don Antonio era religioso dell’Istituto della Carità fondato da Antonio Rosmini. Fin da bambino sognava di essere missionario, «l’incontro con il mio vescovo, il Card. Schuster – disse in una omelia del 19 gennaio 2003 –, fu quello che suscitò la scintilla. “Antonio, vuoi farti sacerdote?” mi chiese, da chierichetto, al termine della Cresima. Gli dissi subito di no. Ma quel no a sera mi bruciava come un no a Dio. Per tre anni da ragazzo, mi inseguiva quella domanda e l’interrogativo: “E se davvero Dio mi chiama?”. Fino a che mi dissi che quella era la mia strada: una strada sulla cui serietà e grandezza mi formò la mia famiglia, fino a che il parroco mi disse: “Vai, è la tua strada”. A 12 anni entrai a far parte dell’Istituto della Carità e fui accolto nell’Aspirantato di Pusiano (Como)… Nel 1939 fui ammesso al noviziato del Sacro Monte Calvario di Domodossola… Il 29 giugno 1951 fui ordinato sacerdote a Novara»)


Fare qualcosa per incoraggiare, per dare speranza era il suo stile in ogni situazione, per ogni questione locale o nazionale. Infatti la sua azione pastorale si è sviluppata ad Acerra, ma è andata anche oltre perché si lasciava interpellare dal grido di tutti gli oppressi e il suo impegno pastorale è stato molto ampio proprio perché grandi erano
i problemi del popolo, dalla casa al lavoro, ai soprusi della camorra: negli anni ‘80 anche le strade di Acerra erano sporche di sangue. Così come si ricorda il viaggio che ha fatto con i bambini del Belice a Roma, si ricorda anche la marcia anticamorra (Di questa marcia parla ampiamente Pietro Perone nel suo libro Don Riboldi 1923-2023. Il coraggio tradito, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, 52ss) fatta con i giovani ad Ottaviano (NA), città di un noto camorrista; parteciparono diecimila persone (era il 1982). Con i vescovi della Campania firma il 29 giugno 1982 il documento Per amore del mio popolo non tacerò che più tardi ispirerà l’azione pastorale di don Peppino Diana e di altri parroci di Casal di Principe (CE).
Ho potuto ascoltare dalle sue parole il racconto di questi anni, la sua decisione ad andare fino in fondo. Negli ultimi mesi della sua vita raccontava spesso di quando un giorno confidò a sua mamma le difficoltà e il pericolo che stava vivendo a causa del suo operato contro la camorra, le fece capire che stava riflettendo se continuare a stare ad Acerra o andare via: «mia mamma non mi fece nemmeno finire di parlare, disse: “Antonio, meglio un figlio ammazzato che scappato”. Da quel momento non ho avuto nessun ripensamento». Nel suo saluto alla diocesi disse: «Voi siete il mio popolo, questa è la mia casa e qui voglio essere seppellito».

Un vescovo fatto popolo
Un Vescovo fatto popolo, così lo ha definito Mons. Di Donna nell’omelia al funerale celebrato il 13 dicembre 2017: «Il nostro “don Antonio” è stato un “Vescovo fatto popolo”, diventato popolo; è stato difensore della città, defensor civitatis come gli antichi patriarchi, gli antichi vescovi ». E si chiede da dove don Antonio attingeva la forza per il suo impegno profetico di dare speranza al popolo: Ha amato don Antonio! Ha amato il Signore nella relazione personale con lui… Questa è la fonte principale, l’ispirazione: il Vangelo, solo il Vangelo e tutto il Vangelo, come il più potente fattore di rinnovamento dell’uomo e della storia.
Subito dopo c’è un’altra ispirazione: la sua formazione alla scuola di un grande cristiano, per molto tempo oscurato nella Chiesa e che recentemente grazie a Dio è stato riabilitato, il Beato Antonio Rosmini, fondatore della Congregazione a cui monsignor Riboldi, rosminiano, apparteneva; e insieme con il Rosmini, la frequentazione di Clemente Rebora, un altro grande rosminiano. Ma in questa formazione ci metterei soprattutto il Concilio. Don Antonio è stato ad Acerra l’uomo del Concilio e degli Orientamenti della Chiesa italiana che ispiravano i Convegni diocesani che hanno scandito anno dopo anno il cammino ecclesiale di Acerra, in particolare l’evangelizzazione e promozione umana, perché l’annuncio del vangelo e la promozione dell’uomo vanno sempre insieme, mai separati.
Mons. Riboldi è un esempio di come un pastore debba dialogare con la città, di come dall’ascolto del grido del popolo questo dialogo si incarna nel ministero e permette di evitare i due estremi: il disinteresse per la politica, il pensare ad una spiritualità disincarnata e lasciare le questioni sociali fuori dalla vita di fede, fuori dall’evangelizzazione, oppure l’attivismo politico non adatto ai pastori della Chiesa. Il Vangelo è per l’uomo di questo mondo, con le sue fatiche e le sue gioie, con le preoccupazioni e le incertezze, con i suoi problemi grandi o piccoli che deve affrontare; il Vangelo è annuncio di speranza che scuote le coscienze, fugge la rassegnazione, incoraggia l’azione. Un annuncio che non tocca la vita quotidiana è un seme gettato sulla strada o al massimo sul terreno sassoso (cf Mc 4,3-8), non avrà modo per portare frutto.


Andate per le strade
Se è nella natura della Chiesa uscire e annunciare il Vangelo a tutti gli uomini (cf AG 1), i luoghi da abitare non possono essere solo quelli del sacro a cui siamo abituati, ma sono quelli che le persone, credenti e non credenti, frequentano ogni giorno, i luoghi dove spendono la loro vita, dove gioiscono e piangono, lavorano e si riposano…
Non possiamo constatare che i cristiani che frequentano le comunità parrocchiali sono la minoranza e non uscire fuori dalle nostre mura; non possiamo lamentarci che alcuni vengono solo in certe occasioni e puntare loro il dito quando per qualsiasi motivo si riaffacciano alle nostre porte.
Come le strade di città e villaggi sono stati i luoghi del ministero di Gesù (cf Mt 9,35), così devono ritornare ad essere sempre più oggi i luoghi dell’evangelizzazione, il contesto nel quale mettersi in ascolto ed entrare in dialogo per vedere e promuovere tutto ciò che lo Spirito già ha seminato, per far crescere insieme vita e comunione. «La Chiesa è chiamata ad essere come Dio che parla dopo aver sentito le urla dei suoi figli oppressi, che scende per liberarli dai faraoni di turno, che osserva la fame di pane e di amore degli esausti per soddisfarla».


Togliamo le etichette
In quest’ottica di Chiesa in uscita, si può riuscire anche a superare e togliere quelle etichette che vengono messe addosso al prete: “di strada”, “di frontiera”, “anticamorra”, “degli ultimi”, “dei migranti” … Il prete e la sua azione pastorale è per tutti; poi il pastore prende “l’odore delle sue pecore”, affronta i problemi particolari di un determinato territorio, ma la sua azione pastorale non può essere mai limitata solo ad una parte.
Ritornando alla testimonianza di Mons. Riboldi, anche se è stato conosciuto come “padre terremoto” in Belice, “vescovo anticamorra” ad Acerra, la sua azione è stata a 360°. Arrivato in diocesi, quello della criminalità organizzata è stato uno dei problemi che ha affrontato e questo ha avuto più risalto anche a livello sociale; oggi in questa terra uno dei problemi che avrebbe dovuto affrontare sarebbe quello dell’inquinamento ambientale.

Ciò che non doniamo, lo perdiamo
Il rischio più grave della Chiesa e di un pastore è quello di non uscire, di non “sporcarsi” della vita quotidiana della gente, di non avere “l’odore delle pecore”, di non ascoltare il grido dei poveri, di non avere la preoccupazione di tanti che vivono «senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita» (Evangelii gaudium 49). Noi preti abbiamo bisogno di approfondire la dottrina sociale della Chiesa e di farla conoscere, di viverla per avere un franco e proficuo dialogo con la città. Le encicliche di Papa Francesco ci aprono una via e illuminano il cammino. Sentiamo sempre forte l’invito di Gesù: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15): andiamo, ovviamente insieme, con altri preti e con i laici, nell’ottica della corresponsabilità e sinodalità, e diamo noi stessi da mangiare (cf Mc 6,37) perché tutto ciò che della nostra vita non doniamo, lo perdiamo.

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