don GIANNI CALIANDRO
Nella liturgia di ordinazione presbiterale, il primo degli impegni che all’ordinando viene chiesto di sapersi assumere è quello di voler «esercitare per tutta la vita il ministero sacerdotale nel grado di presbitero, come fedele cooperatore dell’ordine dei Vescovi nel servizio del popolo di Dio». Questa cooperazione con il Vescovo nella guida della comunità cristiana ci mette in una postura di autorità. E il Concilio ci indica subito il senso di questa autorità: «Per questo ministero, così come per le altre funzioni, viene conferita al presbitero una potestà spirituale, che è appunto concessa ai fini dell’edificazione…» (PO 6). Sono dunque l’edificazione e lo sviluppo della comunità a costituire il senso e lo scopo dell’autorità che ci viene conferita con l’ordinazione.
Un’autorità ispirata a Gesù
Questa potestà si fonda sulle parole del Signore, viene da lui, è un suo dono: «Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate, dunque, e fate discepoli tutti i popoli battezzandoli…”» (Mt 28,18-19).
Gesù riceve la sua autorità in dono dal Padre tramite la sua passione, morte e resurrezione (Mt 26,64). Gli giunge dall’amore del Padre quello che ha rifiutato dal divisore nel momento della tentazione. Quando Matteo infatti, all’inizio del suo vangelo, ci trasmette il racconto delle tentazioni di Gesù, sottolinea proprio come il Signore sia stato tentato anche sul piano del potere: il divisore dal luogo più elevato gli mostra infatti tutti i regni della terra. Egli cerca di far entrare Gesù in uno sguardo che vede tutto come oggetto del suo possibile dominio, gli dice di avere un potere solo suo che è disposto a concedere a Gesù ma ad una condizione: il Messia può avere tutto rinunciando però alla sua libertà. Il Signore mentre è tentato risponde non solo ricorrendo come altre volte alla Scrittura, ma per la prima volta con una sua parola: «Vattene Satana!». È la stessa frase che dirà a Pietro in Mt 16,23.
Qui Satana vuole separare Gesù dalla condizione dei mortali e riportarlo a un potere privilegiato e dominante, là Pietro vuole separare Gesù dalla morte infamante della croce. Gesù in questo modo dichiara l’accettazione della propria fragilità e nel contempo la sua fiducia di incontrare Dio, anche quando la sua vita andrà in frantumi. Le tentazioni portate da Satana condurrebbero Gesù, se le seguisse, a dimenticare e tradire la sua costitutiva fragilità umana. Il potere disumanizza perché è la tentazione di negare la fragilità umana, è la via di fuga dalla debolezza e dalla manchevolezza propria della creatura umana. In particolare è rimozione della condizione di mortalità dell’uomo. Di fronte alla vertigine delle altezze cui lo conduce il diavolo e alla promessa di potere e gloria, Gesù non si sottrae ai limiti di spazio e tempo costitutivi dell’umanità.
Non si sottrae alla mortalità. Gesù non cede alla tentazione del possesso, del dominio, non si lascia affascinare dalla vertigine dell’illimitato, dell’abolizione dei limiti, non si lascia trascinare dal delirio dell’onnipotenza, dal fascino perverso del “tutto”, non cede alla inebriante hybris del potere e della gloria. Egli resta nell’obbedienza a Dio e alla propria creaturalità, alla propria limitatezza. Cita infatti Dt 6,13 che si riferisce al tempo in cui Israele prenderà possesso della terra promessa: «Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome». Nel libro del Deuteronomio si descrive il rischio da parte di Israele di non considerare più la terra promessa come un dono che si riceve da Dio ma come una conquista frutto delle proprie mani. Si esce dal regime del dono per entrare in quello del possesso. Egli invece è il Figlio obbediente che parla mediante la Scrittura e rifiuta il potere come privilegio e puro arbitrio. In questo senso Gesù è il “figlio di Dio”, nel senso che ripercorre per conto proprio l’itinerario di Israele, e là dove questi era entrato in tentazione, egli è trovato fedele a motivo della sua obbedienza alla parola di Dio.
Tutto questo che cosa significa per noi preti?
Essere preti che guardano tutto dall’alto, significa innanzitutto presumere di saper guardare e capire tutto, ma perdendo i dettagli delle cose e delle persone. Forse nella prospettiva del tentatore le persone non contano più, sono solo risorse, o funzioni, o servizi ecclesiali… Solo restando attenti alle persone, alla concretezza delle loro storie e delle loro vicende, restiamo lontani dalla tentazione di un esercizio errato della nostra autorità. Lontano dall’autoritarismo è chi non dimentica che le persone sono innanzitutto questo, sono persone, e la loro bellezza e il loro valore non si esaurisce nel servizio ecclesiale o nella funzione che possono svolgere in comunità. Se nelle tentazioni a Gesù è stato di aiuto ricordare il cammino di Israele, e che il dono della terra promessa non si può vivere nel regime del possesso, ma appunto dell’amore gratuito ricevuto in dono, questo vale anche per noi. Ogni volta che perdiamo la memoria di come la nostra vocazione è un dono sgorgato per noi dalla gratuità di Dio – fuori da ogni logica di merito e di proprietà – e non un possesso su cui possiamo avere la presa completamente, rischiamo di cedere alla tentazione di vivere dinamiche di potere e di dominio sugli altri.
Satana deve andarsene, scacciato dall’obbedienza del Figlio al Padre, ogni volta che vuole allontanarlo dalla strada dell’assunzione della fragilità umana, dalla via della croce. Così è per noi preti: come Gesù, siamo chiamati a accogliere ed ascoltare il nostro lato di fragilità. Molti di noi sono stati formati in seminario all’interno di una cultura in cui si nascondeva la fragilità. Chi di noi è più avanti nell’età è cresciuto con l’idea di una perfezione che ha reso difficile darci il permesso di entrare in contatto con la vulnerabilità della nostra vita. E anche oggi, nell’ideologia della prestazione e della performance, c’è qualcosa di non molto diverso: essere fragili, chiedere aiuto, piangere sono sinonimi di debolezza che è meglio non far vedere.
Finiamo per prestarci anche noi ad una visione di essere umano e di prete come persona eccellente, reattiva agli stimoli e prestante, sempre sul pezzo! Da questo punto di vista, che Gesù sin dall’inizio faccia i conti con il limite e la fragilità, senza nasconderli a se stesso, apprendendo invece ad abitarli, è qualcosa di sconvolgente e di prezioso allo stesso tempo. Può darsi che anche a noi preti il tentatore proponga di riassorbire l’esperienza della mancanza costitutiva della nostra umanità mediante l’onnipotenza che è la negazione della realtà, nostra come di ogni essere umano. Insomma il tentatore potrebbe farci credere che è un buon prete chi sfugge alla condizione umana: non conosce la fame né la morte e riceve il potere sulla totalità della realtà. Imparare a gestire questa tentazione, restare consapevoli dei nostri limiti, abitare la nostra fragilità, ci aiuterà a tenere lontano il lato oscuro del potere e a fare del nostro ministero un vero servizio ispirato al Signore Gesù.
Il potere contiene in sé una grande promessa di vita contro la morte: si vive sopra gli altri e a spese degli altri, come dei vampiri. C’è anche per noi preti la possibilità della grande illusione che finisce per nascondere ai nostri occhi e non ci fa fare i conti con la nostra mancanza, che è costitutiva dell’esistenza umana. Imboccata questa strada, prima o poi si arriva a dominare e manipolare gli altri. Forse il clericalismo, di cui tanto parliamo, trova qui la sua radice perversa.
Quando alla fine del Vangelo di Matteo si parla della signoria di Dio nella storia nella sua universalità (in cielo e in terra), si dice che essa si è realizzata in Gesù, cioè in colui che ha rinunciato a dominare sugli altri esseri umani. Se tale è la signoria di Gesù, come dobbiamo essere noi, che come presbiteri siamo chiamati ad essere segno della sua presenza nella comunità?
Colui che ha ricevuto ogni autorità dal Padre, la conferisce alla sua comunità. Allora per comprendere in che modo anche noi dobbiamo vivere la nostra autorità nella Chiesa, è solo al Signore Gesù che dobbiamo guardare ed ispirarci.
Un’autorità vissuta nello Spirito
A darci la forza di percorrere questo cammino di sequela del Maestro anche per quanto riguarda l’esercizio della potestà ministeriale, sarà la costante apertura del nostro cuore all’azione dello Spirito. Sarà lo Spirito ad aiutarci ad evitare ogni sclerosi nel nostro modo di vivere il servizio di guide, e contemporaneamente a renderci capaci anche di valorizzare e sostenere i doni che Egli elargisce a tutti i componenti la comunità, che vivono vocazioni diverse dalla nostra. Lo Spirito, nel mistero della Tri-unità di Dio, è il legame tra il Padre e il Figlio, li unisce mentre li tiene distinti. Come si esprime, nella concretezza dell’esercizio del nostro ministero, questo intreccio infinito di unità e di distinzione? Forse possiamo dire così: il nostro ministero presbiterale deve essere caratterizzato sempre da un equilibrio tra presenza e assenza.
Dovremo stare con i nostri fratelli e le nostre sorelle, perché la nostra vicinanza sia segno dell’amore di Dio che incoraggia e mette in cammino, rassicura e consola. Ma dovremo anche sapercene allontanare, dando fiducia e responsabilizzando le persone, stimolando le risorse che ognuno possiede, i suoi doni di natura e i carismi della grazia che lo Spirito santo elargisce sempre con generosità a tutti. Solo in questo equilibrio tra vicinanza e lontananza, presenza calorosa e capacità intelligente di lasciar crescere la responsabilità degli altri, potremo contribuire ad avviare processi di trasformazione e di crescita delle persone e delle comunità e trovare un esercizio virtuoso della nostra autorità. Voler essere onnipresenti, facendo tutto noi senza creare corresponsabilità, finirebbe per soffocare la presenza dello Spirito in tutti i credenti. Restare lontani e distaccati, al contrario, finirebbe per farci tradire la chiamata alla presidenza della comunità che il Signore ci ha rivolto, e che richiede vigilanza e premura costanti da parte nostra.
La spinta urgente dello Spirito nel nostro cuore di preti produce poi un altro effetto: come nella Santa Trinità lo Spirito apre la danza dell’amore dei Tre per coinvolgere l’altro, gli esseri umani e l’intero creato, così nella nostra vita presbiterale continuamente ci volge all’apertura, alla missione, all’incontro, al superamento dei confini. Tutti ormai abbiamo compreso come il servizio del governo e della guida della comunità oggi in Italia non può che essere attraversato da un forte spirito missionario. La nostra tradizionale funzione di servizio alla comunione tra i cristiani può oggi essere vissuta nel nostro contesto non di rado solo come avvio di processi comunionali, senza che spesso se ne possano vedere i frutti maturi. L’inizio di queste strade – capaci di creare comunione dove essa ancora non c’è – passa per la capacità in chi guida la comunità di essere un uomo di dialogo, di apertura, di credito e di fiducia data anche a chi si è appena conosciuto, anche a chi è ancora in cammino. La predicazione del Vangelo, e l’esperienza della vita nuova nella liturgia – in un momento come quello che viviamo, che è di sopravvivenza per tante persone – devono più
immediatamente ed esplicitamente fiorire nella carità, di cui si può fare esperienza nella comunità. Il presbitero missionario diventa un costruttore di comunità in cui si può fare esperienza concreta dell’amore, quell’amore che vuole l’uomo vivo, e per questo sa prendersene cura. Come lo Spirito continuamente oltrepassa i confini dell’amore intra-divino per soffiare fuori di esso e toccare chi da quell’amore è cercato e desiderato, così in qualche modo anche noi preti dobbiamo volgere il cuore e lo sguardo di guide della comunità fuori di essa: spesso le nostre comunità cristiane
trasformano i propri confini, devono accogliere sconosciuti, custodire coloro che ne fanno parte da tanto tempo ed aiutarli ad essere ospitali verso chi è appena arrivato e forse non sa ancora bene quali sono lo stile e le regole della comunità. E noi stessi, come presbiteri, siamo chiamati ad esercitarci continuamente all’arte dell’ospitalità. Oggi il ministero presbiterale e la sua autorità si giocano molto sulla capacità di accogliere le persone con i loro bisogni, quelli materiali e quelli spirituali. Se nel contesto passato la funzione dell’autorità era soprattutto fatta di custodia e di accompagnamento, oggi la prima caratteristica della guida deve essere dunque la capacità di essere ospitale.
Il luogo da cui lo Spirito sgorga incessantemente, e fa fiorire la terra, è il costato di Cristo. Dalla croce fluisce nella storia quel fiume di vita che è lo Spirito santo. L’autorità che viviamo come presbiteri non potrà che essere segnata profondamente dalla logica della croce, da quel superamento dell’amore per sé – la philautìa di cui ci parlano i padri del deserto riconoscendone la radice di ogni peccato – che ci chiede di saper amare gli altri più di noi stessi, di saper rinunciare alla soddisfazione immediata ed assoluta dei nostri bisogni personali, pur di far fiorire l’esistenza dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Solo la croce di Gesù ci salva e ci tiene lontani da ogni perversione del potere. Come esseri umani, nella trama delle relazioni tra di noi, e come presbiteri, nel servizio di guida delle comunità cristiane dove il Signore ci ha inviati.