Sinodalità e amministrazione dei beni

padre CARLO MANUNZA

della Redazione di Presbyteri

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Nel mondo globalizzato la gestione dei beni economi- ci è divenuta più complessa che mai anche per il prete. Si è così ulteriormente accentuata una rilevanza che da molto presto essa ha avuto nella Chiesa: il cristianesimo del- le origini si è diffuso lungo vie e centri commerciali, nei qua- li il denaro e l’uso dei beni economici sono stati ambito di primaria importanza per l’avvio dell’annuncio e la testimonianza del Vangelo. Di fatto anche oggi l’uso dei beni è il primo modo con cui il prete si presenta alla comunità: il suo stile di vita e il modo in cui usa il denaro e i suoi beni personali parlano forse più delle parole che egli dice. Sono la prima e più immediata manifestazione della vita che conduce. Sotto questo profilo mass- media e social networks, con la loro attenzione all’immagine, non fanno che amplificare qualcosa che già esisteva. Perché chiamato a spendere la propria esistenza al servizio di una comunità, il prete è esposto all’attenzione di coloro che serve prima di tutto nel come vive. Il modo in cui veste, l’auto che acquista, il tenore di vita che mantiene sono perciò uno dei primi luoghi della sua testimonianza evangelica. È dato impor- tante di cui tener conto, spesso richiamato da lunga tradizione attraverso il tema della povertà della vita religiosa, nonostante la difficoltà e delicatezza che comporta anche il solo parlarne con concretezza.

Colui che è responsabile della comunità non amministra solamente però i suoi beni personali. Perché responsabile di una collettività, decide e di fatto gestisce pure la responsabilità (spesso anche giuridica) delle risorse economiche (immobili, denaro, etc.) legate alla comunità e alla sua vita. Sotto questo profilo, oggi più che in altri tempi, sono richieste competenze di gestione, che raramente e difficilmente fanno parte del curriculum formativo del prete. Eppure, se la gestione dei beni personali del prete è ambito di testimonianza, lo è certo ancora di più quella dei beni della collettività.

La difficoltà e la delicatezza dell’ambito, unite alla competenza tecnico-specialistica spesso richiesta, rischiano di saldarsi spesso in complicità con l’opinione che occuparsi delle cose di Dio e dello spirito debba essere estraneo, se non in op- posizione, alla gestione economica delle cose “del mondo” o “materiali”. Ciò contribuisce a rendere difficile accorgersi che proprio questo è invece un ambito primario di testimonianza del Vangelo, fin dalle origini della Chiesa. Con il paradosso, a volte, che si finisce per avere l’inconscia pretesa di predicare o parlare a persone che vivono nel mondo, senza rendersi realmente conto del mondo nel quale si svolge la loro vita, una cui parte consistente ha a che fare con le soddisfazioni e le preoccupazioni legate alla gestione dei beni economici.

Come allora cercare Dio in un campo, che da un lato non dovrebbe occupare il cuore della nostra missione e della nostra vita, ma che dall’altro non può neppure rimanere ad esse estraneo o delegato in toto ad altri, che decidano per noi sulla nostra vita e sulla testimonianza, personale e comunitaria, resa in quest’ambito?

Bisogna prima di tutto guardarsi da due tentazioni opposte. La prima è quella di disinteressarsene delegando la sua delicata gestione ad altri, che hanno competenze tecniche migliori delle nostre. Il disinteresse totale suona rinuncia alla testimonianza e uscita (o forse fuga) dal mondo, perdita di quel contatto che ci permette di condividere, anche nell’effettività, una parte di vita che accomuna il prete alle persone affidategli. Si rischia allora di vivere un vangelo disincarnato, non spirituale ma “aereo”; si stacca l’effettività della vita propria (che comunque implica gestione di beni per la propria persona) da quella del ministero, nel quale invece la vita e gioia del prete sono chiamate a ritrovarsi.

La seconda è quella di accentrare tutto nelle proprie mani. Ci si avvale sì di consulenti “esterni” e tecnici, ai quali si dà fiducia, ma le scelte di gestione e disposizione dei beni restano accentrate e insindacabilmente chiuse nella propria coscienza e nelle proprie mani. Forse con la giustificazione che a queste decisioni concorrono informazioni e conoscenze di situazioni personali, che richiedono riservatezza. O forse perché si fa fatica a aiutare altri a entrare nella delicatezza e complessità che certe decisioni e scelte di disposizione implicano e quindi a poterne comprendere le motivazioni. O forse ancora perché la gerarchia delle cose da fare impedisce di poter dedicare il tempo che sarebbe necessario per raccogliere i dati richiesti da una gestione oculata dei beni. Comunque sia, resta (e filtra all’esterno) una percezione di solitudine, se non di esclusività monocratica, che, al di là della felicità o infelicità dei singoli atti di gestione, irradia un senso di isolamento (e connessa sofferenza) venato di tristezza, solo in parte coperta dalla sicurezza dolciastra del “non c’è altra strada concretamente percorribile”, magari con la complicità dell’architettura giuridica civile ed ecclesiastica cui il prete è sottoposto.

Il Vangelo, fin da S. Paolo e dal Nuovo Testamento, apre invece un’altra strada, in sintonia con la “sinodalità” che la Chiesa va riscoprendo. Pur a dispetto della forma mentis individualistica prevalente sia nel nostro ordinamento giuri- dico sia nella nostra pervasiva cultura economica, “essere responsabili” non vuol dire “essere da soli”. Né “dire l’ultima parola” coincide necessariamente con il dire “l’unica parola”. Lo dice lo stesso termine responsabilità, che viene da rispondere, cioè dare parola a qualcun altro che domanda e con cui si è in dialogo. S. Giovanni (15,15) qualifica il servo, come il ministro ordinato è chiamato ad essere, come colui che fa sapere quel che fa a colui di cui egli è servo. Di fatto la comunicazione sul fare regola il rapporto fra il Padre e il Figlio (Gv 5,19-20: “quello che il Padre fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa”), dalla quale discende anche quella fra Gesù e gli apostoli (“tutto ciò che ho udito dal Padre ve lo ho fatto conoscere”, ancora Gv 15,15). Condividere insieme ad altri le scelte di gestione dei beni propri e altrui dandone ragione è allora un modo di servire la comunione. Non si tratta semplicemente di avvalersi di consulenti esterni, competenti ma proprio per ciò naturalmente retribuiti cioè mercenari (cf Gv 10,12s), quand’anche per amicizia personale facciano dono del loro compenso. Si tratta piuttosto di celebrare e vivere con altri un rapporto che insieme permetta di chiarire come Dio vuole che i beni economici siano gestiti, nel particolare contesto e con i vincoli in cui ci si trova a vivere, e di agire conseguentemente. Richiede perciò un modo di raccogliere informazioni; di registrare i fatti economici; di comunicarli in maniera vera, corretta e precisa ma comprensibile e semplice; di trovare i tempi, i luoghi e i modi perché questo debba e possa avvenire con semplicità e senza tensioni; di comunica- re le informazioni necessarie in modo tale da non violare la riservatezza ma da rendere comprensibile perché certe scelte sono lette come volontà di Dio. Richiede anche capacità di ascolto e dialogo con i “tecnici” (e di richiesta di ulteriori in- formazioni laddove le cose non si comprendano a fondo) tale da poter dire (o decidere) qualcosa di buono e sensato; ed anche una capacità di riferire che permetta all’altro di sentirsi parte (e non semplice “consulente esterno”) delle motiva- zioni e finalità che giustificano l’appartenenza dei beni alla comunità e la loro gestione.

La trattazione paolina della colletta in 2Cor 8-9 è un prezioso esempio di una rendicontazione dello stato della raccolta di denaro presso terzi e della richiesta diretta di contributi, presentate come condivisione del soccorso all’indigenza dei fratelli lontani. Spiega bene come la gestione dei beni, in quel caso la raccolta di denaro e il suo invio, sia qualcosa che rende visibile una comunione fra i santi e unisce tangibilmente le chiese. Non tutti abbiamo la genialità anche teologica di S. Paolo nel rendere ragione del proprio operato e di indicare linee operative. Tutti siamo però chiamati a condividere la fatica di costruire, anche a partire da questioni inerenti il denaro, una comunicazione che permetta a tutti di sentire propria la comunità, sentendo proprie le finalità che con la gestione dei beni si ricercano, in una condivisa obbedienza a quel che si vede essere la volontà di Dio. È modo forte e concreto di cercare di vivere la sinodalità, alla quale fratellanza e solidarietà sono legate.

È un cammino, lungo, di nuovo all’inizio. Immersi come siamo in un mondo individualistico se non egoistico, è oggi probabilmente profetica la ricerca di una comunicazione che, invece di manipolare l’altro, sappia metterlo in condizione di dire la sua con rispetto e libertà, e avviare così uno scambio e un dialogo fruttuosi. Una comunicazione che sappia invita- re, far posto e accogliere altri anche nel concreto dei processi che riguardano le scelte economiche. È un importante canale di costruzione della comunità. Sta all’opposto di una gestione individualistico-monarchica che, lo ripetiamo, sostituendo la condivisione con il silenzio, ingenera solitudine e subalternità, magari coperte dalla soddisfazione dolciastra di efficienza o di buone performances reddituali.

Scegliere di rendere conto e interpellare è impegnativa estensione del dare ragione della speranza che è in noi (cf 1Pt 3,15) anche in quest’ambito. È via già battuta dalla Chie- sa delle origini nella ricerca di un linguaggio che potesse an-
nunciare un Dio, che è entrato nel mondo fino ad assumere la carne umana. Si pensi solo al termine comunione, con il quale ancora oggi si parla di Eucaristia. È traduzione del gre- co koinonia, preso da S. Paolo dal linguaggio commerciale del tempo: indicava anche, correntemente, l’agire in comu- ne di un’impresa economica. L’Apostolo segue in ciò l’uso di un campo lessicale che troviamo fin nei Vangeli: Lc 5,10 ci racconta che Giacomo e Giovanni, pescatori, erano soci- koinonoi di Simon Pietro. Ecco perché, seguendo una lunga tradizione, l’amministrazione dei beni e la loro gestione con- divisa può essere occasione preziosa per iniziare a chiedere in preghiera al Signore, che ci dia un sguardo attento e capace di cogliere chi coinvolgere, fra le persone che abbiamo attor- no in parrocchia, per iniziare a camminare insieme sulla sua strada.

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